12 Agosto 2021

Il grottesco e lo squallido. Un’analisi empirica ed estetica

di Enrico Piergiacomi 

C’è un filo rosso che unisce molti lavori della programmazione di Inequilibrio 2021, ma più in generale l’arte teatrale (e non) dei nostri tempi. Mi riferisco alla polarità del “grottesco” e dello “squallido”. I due concetti sono simili, tanto che possono sovrapporsi a vicenda, ma c’è una differenza essenziale che li separa e ne fa due universi incommensurabili. Cominciamo però da una rassegna sintetica di sei lavori di teatro che stanno sotto il segno tanto del grottesco, quanto dello squallido: quattro sono stati allestiti presso Inequilibrio, due hanno preceduto il festival.

C’è anzitutto La trappola di Gogmagog – Giallomare Minimal Teatro. Si tratta di una deflagrazione teatrale del racconto omonimo di Pirandello, confluito nelle Novelle per un anno. Il protagonista del testo pirandelliano vede un nichilista che passa le sue giornate dentro casa, senza mai accendere la luce e senza aver contatti con nessuno, nemmeno con il padre anziano che sta morendo in una stanza attigua, per non collaborare a quella che ritiene essere la “trappola” del titolo: la perpetuazione della vita. L’uomo pensa, infatti, che ogni cosa che nasce è una forma che trattiene il flusso costante della vita e, dunque, ne conclude che l’atto sessuale sia un modo in cui i viventi moribondi generano altri «piccoli morti», i quali a loro volta proseguiranno il ciclo perverso. La versione teatrale fa però deflagrare questa ideologia nichilista nel tema del “doppio” e compie un ironico rovesciamento del noto motivo pirandelliano della maschera. L’uomo (interpretato da Francesco Pennacchia) che nella novella parla a sé stesso si rivolge qui invece al suo alter ego (Tommaso Taddei) che, tuttavia, manifesta le caratteristiche contrarie alle sue. Se ad esempio il nichilista ama il buio e argomenta le sue idee cupe sulla vita, il doppio desidera la luce ed emette suoni senza significato, un gorgoglio di battute surreali e divertenti. Sul piano concettuale, lo sdoppiamento porta alle estreme conseguenze la filosofia pirandelliana. Essendo la vita una trappola che chiude in una forma, ne deve seguire che anche le maschere o i doppi che proiettiamo all’esterno sono intrappolati in una spirale senza senso. A livello scenico, lo sdoppiamento attenua di contro la carica tragica della novella e introduce l’elemento comico. Il concetto chiave della vanità di vivere e riprodursi permane, ma diventa materia tollerabile e che lo spettatore trova persino piacevole, perché lo guarda rispecchiato in un ritmo avvincente.

Oblòmov Show di Compagnia Oyes è a sua volta la trasposizione teatrale di un testo letterario otto-novecentesco. Si tratta di Oblòmov di Gončarov, il cui protagonista non si alza dal letto o dal divano in cui si accascia con pigrizia per le prime cento pagine del libro e sembrerà riscuotersi solo con l’innamoramento ricambiato di Olga, conosciuta per mezzo del suo amico Stoltz, salvo poi ricadere nell’apatia. Compagnia Oyes conserva la struttura della vicenda, ma la attualizza e la usa per riflettere sulla tentazione contemporanea del ripiegamento sul proprio “io”, che ha acquisito maggior forza dopo il periodo di isolamento forzato della pandemia.

L’Oblòmov odierno è un ex artista di teatro che teme tutto, dal successo artistico all’amore, dallo stringere amicizie all’andare a trovare il padre morente da cui è mantenuto, e adotta come reazione difensiva la scelta di non-agire, di restare dentro la cornice insieme soffocante e rassicurante della degradazione. Vivendo infatti nel degrado, egli è tranquillizzato dall’alibi che gli altri non possono aspettarsi niente di buono o grande da lui, mentre se agisse e fallisse nel cercare la bontà o la grandezza sarebbe visto come un inetto. Gli attori e le attrici della compagnia amplificano dunque il male oscuro che attanaglia Oblòmov, evidenziando che è una condizione esistenziale di molti. Diversamente dal romanzo, infine, dove il protagonista ha un figlio da un’altra donna e auspica di vedere in lui la fine dell’«oblomovismo», o dello spreco della vita attiva, Oblòmov Show non lascia nemmeno questa luce. La riscrittura termina con Oblòmov ricaduto nell’identico degrado della scena iniziale e aggiunge uno spaccato di Olga, ora sposa di Stoltz, che contrae la stessa apatia verso la vita che contraddistingueva il suo vecchio amante. L’«oblomovismo» diventa così, nella riscrittura della Compagnia Oyes, un male contagioso che colpisce anche le anime solari e propositive.

La gloria di Fabrizio Sinisi riempie un buco nero della giovinezza di Adolf Hitler, ossia il primo periodo trascorso a Vienna (1906-1908). Qui egli conviveva con l’amico e futuro direttore d’orchestra August Kubizek, ma tentò anche per due volte l’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti. Il testo studia i prodromi giovanili della trasformazione di Hitler nel Führer, che sbocceranno molti anni dopo. Alcuni appartengono consistono in dei dati della sua immaginaria biografia: ad esempio un amore mai corrisposto con un’allieva e forse amante di Kubizek, o il confronto con gli insegnanti ebrei dell’Accademia che ne decisero la bocciatura.

Più interessanti sono, però, i germi della dittatura che il giovane Hitler avrebbe ricavato dalle sue preferenze artistiche. Queste comprendono Wagner, l’architettura, il romanticismo tedesco che esalta l’artista misero e disadattato, ma che aspira con ogni sua azione alla grandezza, al vitalismo, alla supremazia, in altri termini alla «gloria» che Sinisi pone nel titolo. Uno dei temi centrali che emerge da tale scenario dei “dolori del giovane Hitler” consiste, pertanto, nella critica all’arte e alle sue degenerazioni ideologiche. Se il futuro dittatore non fosse stato così potentemente influenzato dall’estetica del suprematismo, forse il Reich non sarebbe mai esistito.

Vi è, infine, tra i cinque spettacoli di Inequilibrio 2021, Il caso W. di Claudio Morganti, che immagina il seguito dell’incompiuto Woyzeck di Georg Büchner, ispirato a un vero caso di cronaca nera e giudiziaria. La storia vuole che, nel 1824, il Woyzeck reale uccise la sua compagna Johanna Christiana Woost (= Marie nella versione büchneriana) e venne dichiarato capace di intendere/volere, dunque responsabile del suo crimine e meritevole della condanna a morte. Ora, ne Il caso W., si immagina quale potrebbe essere stato il processo. Esso fu forse l’arena di due divergenti visioni del mondo, incarnate dall’avvocato della difesa e da quello dell’accusa. Il primo interpreta le dichiarazioni dei testimoni per dedurne la follia di Woyzeck e soprattutto la sua origine sovrannaturale, il secondo li legge secondo una logica umana, tutta umana, e presenta dei «fatti» che invece proverebbero la sanità mentale dell’accusato. La questione viene lasciata aperta, anche perché ciò che interessa Il caso W. non è tanto indagare se il sovrannaturale sia reale o fantastico, se l’omicidio sia da giustificare o da condannare, quanto vedere da vicino come è amministrata la giustizia sulla terra. Qui l’indagine è impietosa, perché si riscontra che i ministri di questa virtù somma svolgono il loro compito spesso con sciatteria, vanità, o comunque in modo non confacente alla gravità della loro funzione. Del resto, la recitazione dei comportamenti del giudice e dei due avvocati – che arrivano persino a cantare o ballare in aula – è direttamente ispirata alla visione di alcune sessioni giudiziarie, dove sorprendentemente il luogo serio/sacro del tribunale diventa un teatro dell’assurdo allo sbando.

Uscendo dal contesto di Inequilibrio 2021, troviamo anche altri due esperimenti performativi che vanno nella stessa direzione e che menziono rapidamente. Da un lato, abbiamo sempre di Claudio Morganti lo spettacolo Le nozze, prodotto dal Teatro Metastasio di Prato e che rappresenta la farsa omonima di Anton Čechov. Si tratta di un gioco crudele che si tiene distante da ogni tentazione ideologica di attualizzazione, come ha evidenziato Attilio Scarpellini in un recente articolo, e in cui i personaggi della borghesia decaduta di fine ottocento – con le loro grettezze morali, i loro costumi degradati, le loro ambizioni insulse e provinciali – sono trasformati in una materia musicale, o in un pretesto per una costruzione ritmica interessante. Dall’altro lato, si può citare LLAREGGUB_una cosa da niente di Teatro Rebis, primo movimento dal poema Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas che si introduce nei sogni degli abitanti di una città invisibile e inesistente, Llareggub appunto, che danno uno sguardo allucinato, distorto, umoristico e a tratti violento di ciò che è accaduto nella veglia. La realtà che si vede da svegli potrebbe non essere il mondo autentico, che invece consiste nelle proiezioni mentali di queste menti poetiche in delirio.

Possiamo adesso tornare alla polarità “grottesco” e “squallido” da cui si è avviata l’indagine, più precisamente usare i risultati delle analisi di tali spettacoli per aprire una domanda più generale. Perché i soggetti così scabrosi e bizzarri si rivelano tanto interessanti sulla scena? È evidente che la maggior parte di noi si terrebbe lontana, nella vita, dai corrispettivi reali dei nichilisti, degli Oblòmov, dei giovani Hitler supponenti e tromboni, dei Woyzeck e degli improbabili operatori della giustizia, dei personaggi degradati de Le nozze o di LLAREGGUB. Eppure, sulla scena, i loro corrispettivi immaginari/simbolici sono trasformati. Seguiamo con attenzione gli argomenti disperati del nichilista, con trascinamento l’immobilità apatica di Oblòmov, con simpatia i dolori del giovane Hitler, con piacere misto a orrore il caso Woyzeck, con compassione le vite insignificanti e grette sia dei borghesi de Le nozze, sia dei disadattati LLAREGGUB. Quello che insomma nella vita troveremmo odioso, in arte risulta attraente e seducente.

Per provare a risolvere la questione, occorre chiarire di cosa parliamo quando ricorriamo ai concetti di “squallido” e di “grottesco”. La prima cosa che va notata è che sono accomunati dall’essere due specie della categoria del “deforme”. Né nella vita né in arte, infatti, chiameremmo squallida o grottesca la forma esteriore, comportamentale, relazionale e conforme alla “normalità”. Chiamiamo convenzionalmente “bello”, ad esempio, il volto ben proporzionato, e tanto più uomini o donne rispecchiano tale proporzione, tanto più diciamo che sono modelli di bellezza. Lo stesso vale per i comportamenti. Non diremmo grottesco né squallido l’uomo saggio che in ogni sua azione si conforma a decoro e misura. Quando invece il volto assume una sproporzione rispetto alla bellezza convenzionale, o un comportamento diventa debordante, ecco che ha luogo il deforme. E, con esso, accade che persone, azioni, o situazioni diventino ora squallide, ora grottesche.

La differenza tra i due concetti sorge, forse, a partire dalla diversità degli effetti che suscita la deformazione. Lo “squallido” ha luogo quando la reazione che abbiamo davanti alla deformità è negativa: dove il dolore, il fastidio, il disagio, la ripugnanza superano l’attrazione. Immaginiamo di camminare per un sentiero di montagna e di scoprire una coppia di disperati che vive in una grotta da anni. I loro volti sono deformati dalla malattia e dalla sporcizia, il loro linguaggio è un gorgoglio di suoni senza significato, in ogni azione trasuda una stanchezza cronica, mancanza di cura e l’assenza di empatia verso sé stessi, come verso gli altri. Persino l’ambiente è abbrutito. Dove dovrebbero esserci fiori sul prato, troviamo rifiuti di plastica, teli sudici e avanzi di cibo in putrefazione, mentre le pareti della grotta che in assenza dei due inquilini sarebbero rimaste incontaminate sono coperte da vomito o incisioni con frasi sgrammaticate, bestemmie, oscenità. Lo squallore domina incontrastato in tale scenario e, a meno di non voler condurre uno studio antropologico o di voler soccorrere i due individui, l’istinto sarebbe di scappare e non vedere oltre. Mutatis mutandis, ma in grado di gran lunga minore, potremmo trovare lo stesso squallore in un ufficio postale di provincia, nei bagni di una stazione di servizio, in un’aula di un tribunale in cui si discutono casi di ordinaria grettezza, o in altri luoghi in cui ogni forma di decoro e di proporzione convenzionale è stata devastata.

Il “grottesco” potrebbe invece avere i caratteri contrari allo squallido. La deformazione di cui qui si parla genera più attrazione che disagio, fastidio, o altre reazioni negative. Ma soprattutto, se lo squallido sembra essere una condizione dovuta all’abbandono di ogni volontà, o quanto meno al trascinarsi in una condizione di degrado, il grottesco sembra essere un deforme volontario e che, in un modo molto particolare, intende esprimere qualcosa di più alto che non si trova nelle forme plastiche convenzionali.

Del resto, il termine “grottesco” è un conio artistico, nato nel contesto delle arti figurative. L’aggettivo era usato per indicare i dipinti parietali che erano stati volutamente creati per violare la proporzione, il decoro, la bella forma e catapultare l’osservatore in un universo differente da quello convenzionale o cosiddetto “naturale”. In un certo senso, se prendiamo alla lettera “grottesco” e lo riferiamo alle pitture che già i primitivi disegnavano sulle pareti delle grotte in cui abitavano, potremmo azzardare che la prima espressione artistica umana è stata grottesca e addirittura che essa aveva qualcosa di eroico. Non troviamo alcuna proporzione, ad esempio, nelle pitture rupestri di Lascaux che rappresentano gli esseri umani come bastoncini stilizzati che cacciano bisonti dal corpo mostruoso e asimmetrici. Contempliamo, di contro, una forma deformata che mostra la vitalità della natura selvaggia e minuscoli omuncoli che, per sopravvivere, sfidano eroicamente giganti che sembrano sul punto di sfondare la parete, di spiccare il volo come il toro bianco in cui Zeus si trasformò per rapire Europa e portarla oltre il cielo.

Ciò però non basta. Occorre essere ancora più precisi, ipotizzando un diverso rapporto tra materia e forma. Nello squallido, esse sembrano coincidere. La forma deformata che assumono i due disperati abitanti della grotta che ho descritto sopra non può essere distinta dalla materia. Di contro, nel grottesco pare avvenire una dissociazione. I primitivi erano forse irsuti e sdentati e con le unghie lunghe / grondanti di sudiciume, non stilizzati e sottili come uno spillo. I bisonti da loro cacciati non erano altrettanto puliti e sicuramente non avevano le dimensioni mastodontiche che vediamo nelle pitture di Lascaux. La materia che in quest’ultima rappresentazione resta insomma squallida, perché consiste in sé in un omuncolo che cerca cibo ed è animato dall’istinto basso o materico della fame, assume una forma priva di ogni squallore.

Potremmo così proporre, alla luce di queste osservazioni, che il grottesco è lo squallido eretto ad arte. Se la coppia di disperati che ho descritto diventasse oggetto di un poema, di uno spettacolo, di un saggio, il loro squallore sparirebbe di colpo come l’ombre davanti al sole estivo. Ma lo stesso principio potrebbe valere per gli spettacoli esaminati in precedenza. Un Oblòmov reale è ad esempio solo doloroso e odioso. Un Oblòmov trasposto in uno show resta una materia squallida, ma la cui forma diventa vibrante e radiosa. L’orrore è mescolato al piacere e accende l’intelligenza, portando nel territorio abissale della bellezza non convenzionale, che attrae proprio perché è per sua essenza debordante, illogica, incomprensibile.

Chiaramente bisogna stare attenti a non essere troppo tranchant e a considerare questa divisione come assoluta. Le reazioni possono essere molto variegate. Ciò che io chiamo “squallido” potrebbe essere trovato “grottesco” da un altro, e viceversa. Si può guardare con uno strano piacere misto a orrore la sorte disperata dei due cavernicoli contemporanei, così come provare solo profonda irritazione e insostenibile sconforto guardando Oblòmov Show. Dove appare il deforme, ogni regola in fondo sparisce e si percorrono spazi in cui nessuna convenzione ordinata è presente a orientarci, o almeno pronta rassicurarci. Il risultato emotivo di questa prospettiva teorica è lo scatenarsi di un tumulto di passioni, che non si sa cosa dischiudono nel presente e cosa potrebbero procurarci in avvenire.

D’altro canto, si può anche affinare la distinzione ipotizzando che lo squallido perlopiù crea reazioni di solo fastidio e che il grottesco perlopiù introduce il sentimento del piacere o delle bellezza mescolata a orrore. Ne segue che le eccezioni potrebbero essere spiegate sostenendo che sono operative altre disposizioni d’animo, che spingono a vedere la vita come se fosse un’opera d’arte, o per converso l’opera d’arte come se fosse una vita. Chi gode esteticamente di fronte ai due cavernicoli contemporanei sta tacitamente leggendo l’evento come un ritmo da palcoscenico, allestito da dio (per chi crede e ha immaginazione poetica) o dalle combinazioni necessarie degli atomi nel vuoto (per chi ha spirito logico-razionale). Chi invece prova fastidio di fronte a Oblòmov Show fa un errore prospettico, perché pretende di vedere come reale ciò che è nell’intenzione immaginario.

Valga come ultima osservazione una nota sul legame tra comico e grottesco. I lavori che sono stati descritti precedentemente hanno in comune, infatti, anche il principio della comicità, almeno per una ragione: perché creano una presa di distanza e generano un oblio della realtà concreta, che ci consente di oltrepassare un attimo lo squallore contemporaneo. È dimenticando le miserie della vita su cui insiste il nichilista di Pirandello, gli orrori di cui è responsabile Hitler e la sorte ingiusta del soldato Woyzeck, povero pupazzo manovrato da forze più grandi di lui e che l’umanità fatica a capire, che la mente svuotata degli spettatori si riempie di qualcosa di superiore. Essa può vedere il lato luminoso di queste anime oscure che il buio non è del tutto riuscito a offuscare. Chiudendo il ragionamento, possiamo presumere che un processo comico consente di separare, entro ciò che è deforme, l’aspetto positivo (= grottesco) dalla materia squallida. La comicità è un mezzo di conoscenza e di vittoria morale sul brutto, che per un attimo diventa bellissimo, di una bellezza che fa ridere e piangere insieme.

Se queste considerazioni sono plausibili, resta un sottofondo inquietante. Si presuppone, infatti, che un’arte teatrale grottesca esiste e pare aver raggiunto l’apice espressivo, o almeno una larga diffusione. Ma da ciò se ne deduce, per converso, che allora i tempi sono diventati oggi estremamente squallidi, più intollerabili e amari dei secoli passati, dove ancora poteva esserci una materia eroica e forse divina. Se allora l’arte ha raggiunto una deformità e scabrosità estrema, la responsabilità non è degli artisti, i quali non fanno che aguzzare l’intelletto verso i sommovimenti spirituali del presente. La colpa è piuttosto nella vita e l’arte agisce come antidoto in un mondo sull’orlo del suicidio, o dell’ecatombe universale. E se questo universo è fatto da una divinità, vuol dire che dio è un cavernicolo che ha disimparato a creare, che ha costellato l’universo di sgorbi e scarabocchi orribili.

A cura di:
Redazione Armunia

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