3 Agosto 2021

Metafisica della scenata in due esperimenti performativi

di Enrico Piergiacomi 

Ettore e Andromaca – Giorgio De Chirico

Quella miniera di spunti e osservazioni che è il volume Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes dedica un’intera sezione all’analisi della “scenata”. Secondo il semiologo, uno dei tratti costitutivi di questo conflitto tra partner è un tacito desiderio di dominio. Ciascun partecipante alla scenata vuole avere l’«ultima parola», persino su un argomento che pare essere futile. Scrive infatti Barthes: «Anche se irrilevante, la scenata lotta con l’irrilevanza. (…) Essere l’ultimo a parlare, “concludere”, significa dare un destino a tutto ciò che ci si è detti, significa dominare, padroneggiare, dispensare, fissare il senso; nello spazio della parola, colui che viene per ultimo occupa una posizione di predominio…» (Frammenti di un discorso amoroso, traduzione di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 1979, La scenata, § 5; ma cfr. già La dedica, § 3: «Il dono rivela a questo punto la prova di forza di cui esso è lo strumento: “Io ti darò più di quanto tu dai a me, e così ti dominerò”»). La scenata nasconde pertanto una dinamica di potere che aspira a una dissimmetria. Un amante vuole segretamente ridurre l’altro al suo potere, anche se questo perlopiù non accade. La scenata può del resto proseguire all’infinito, proprio perché nessuno dei partner intende arrendersi. O se anche essa sembra a un certo punto arrestarsi, è molto probabile che si approdi a un equilibrio precario. La scenata potrà riaccendersi nell’immediato o prossimo futuro e avrà realmente termine solo a seguito di un evento dalla portata eccezionale, come la fine della relazione e la morte di uno dei partecipanti alla sceneggiata. Se si esaurisse nella dinamica di conflitto, l’amore coinciderebbe con il sadismo – Barthes cita nel § 4, non a caso, un’analogia con la Justine di Sade. La relazione erotica non sarebbe inoltre troppo diversa dagli altri rapporti di potere nascosti che regolano la società o altre cellule sociali (famiglia, lavoro, ecc.). Barthes lascia intendere, però, che la scenata è qualcosa di più: probabilmente è un modo per sondare l’abisso del partner. Nel capitolo L’Inconoscibile, il semiologo precisa che l’altro assume i contorni dell’enigma. È una persona che esercita una «forza» contraria e uguale alla mia, da cui posso lasciarmi attraversare o a cui mi posso opporre (come accade appunto nella scenata), ma di cui non riesco a misurare la natura, né i desideri. E poiché anche “io” sono per l’altro a mia volta misterioso, ne segue che nella relazione amorosa il mistero si intensifica e che l’utopia della conoscenza del partner comporta un avanzamento utopico anche nel sapere su di sé. Specchiandosi nel mistero del “tu” o del “voi”, l’“io” o il “noi” capisce di essere un incomprensibile abisso di problemi. Sebbene Barthes non lo espliciti, infine, è possibile che in seno alla dinamica della scenata ci possano essere più orizzonti possibili. I partner possono trarre da questo evento o l’occasione per imporre il dominio sull’altro, o di apprendere meglio che cosa sia la coppia e per estensione sé stessi. Mi pare di aver intravisto l’attuarsi di questo tipo di discorso in due esperimenti performativi di Inequilibrio 2021: la regia di Maurizio Lupinelli de Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder e Sergio di Francesca Sarteanesi. Mutatis mutandis, in entrambi i lavori si rappresenta una grande scenata che drammatizza la ricerca di un equilibrio tra la pulsione al dominio e la ricerca della conoscenza di sé / dell’altro. Restano ben inteso importanti differenze di contenuto e stile tra due lavori per molti versi affini, che cercherò di suggerire nel corso dell’argomento.

Le lacrime amare di Petra von Kant di Lupinelli non è la drammatizzazione del film omonimo di Fassbinder, più nota al pubblico, né la messa in scena del testo teatrale originario. È al contrario una sintesi tra le due versioni. Lupinelli riscrive, infatti, il copione teatrale di Fassbinder, attingendo a spunti e temi della sua traduzione cinematografica. Potremmo considerarla una restituzione dialettica, che teatralizza ancora di più il film e “filma” la drammaturgia dell’originale per il teatro.

Ci sono almeno due vistosi cambiamenti drammaturgici (dunque, di senso) in questa riscrittura. Il primo riguarda il tema della passione, che era ambiguo nella poetica di Fassbinder. La passionalità è infatti il filo conduttore del film, tanto che ogni interazione tra i personaggi è caricata da pulsioni o latenti, o che esplodono in una serie di scenate che possono portare fino al disfacimento fisico – dalla seconda metà della vicenda, ad esempio, vediamo Petra che indossa una vestaglia trasandata. Il testo teatrale è di contro molto meno chiaro sulla natura della passione, vale a dire se sia reale, o simulata. È vero, le didascalie dicono che i personaggi piangono, che sono in tensione, che singhiozzano, che si baciano: tutte azioni che potrebbero essere dovute a passionalità. Ma nulla impedisce di pensare che, in realtà, esse siano affettate, che simulino una passione che non c’è, oppure che, se c’è, non arriva a far perdere il controllo. Dopo tutto, tutte le sei donne dell’opera vivono nell’ambiente della moda, dove tutto è accentuato, simulato, affettato per scelta estetica. Si prenda in particolare come riferimento il momento della penultima scena in cui Petra spera nell’arrivo della sua ex-amante Karin e vede invece entrare la sua amica Sidonie. Se nella pièce si legge in didascalia che «si ha l’impressione che voglia stritolare il bicchiere che regge in mano, poi si controlla», nel film la donna è dominata dalla passione e spezza il bicchiere, senza versare dalla mano una singola goccia di sangue. Ora, la “resa dialettica” di Lupinelli gioca su questa ambiguità e su una potenziale unità degli opposti. È innegabile che una passione brucante vi sia, ossia la stessa che è mostrata nel film, altrimenti la vicenda semplicemente non partirebbe e non si evolverebbe. Petra non potrebbe piangere «lacrime amare», se non fosse visceralmente innamorata di Karin. Al contempo, però, come nella pièce, questa passione bruciante è espressa in forme fredde/affrettate. Non c’è punto nella versione di Lupinelli in cui le donne non indossino abiti alla moda e non si presentino curate persino nei punti in cui l’amore tormentato porterebbe a strapparsi le unghie o i capelli. La passione è così volutamente prosciugata per rendere visibile allo sguardo impietoso dello spettatore ciò che cova realmente sotto l’ardore del desiderio amoroso: la volontà di controllo e di potenza. Sulla scena, infatti, vediamo sei donne intenzionate a dominare sulle altre, alcune attuando una strategia di possesso aggressiva e diretta, altre una subdola e discreta. Un esempio del primo tipo di rapporto è quello di Petra verso la domestica Marlene e Karin. Ella riversa su di loro la frustrazione accumulata durante i precedenti matrimoni con due uomini, che riusciva a superare professionalmente, ma ne era succube sul piano sentimentale. Prova, inoltre, a porsi in posizione di autorità promettendo alla giovane amante una carriera nella moda e imponendo alla domestica di obbedire a ogni ordine in silenzio. Un esempio del secondo tipo di strategia di dominio è invece attuato da Karin e Marlene verso Petra stessa. Le due donne sembrano assecondare la volontà dell’amante/padrona, ma in realtà la manipolano, costringendola a far l’opposto di ciò che desidera. L’estetica della sottrazione della passione rivela così che l’universo femminile di Fassbinder brucia, se è lecito usare un paradosso, di un incendio di ghiaccio. L’amore qui oggetto di scavo psicologico si rivela essere un sentimento plastico, che usa la seduzione per rovesciare il padrone in servo e creare una gerarchia di potere. Il prosciugamento della passione in Le lacrime amare di Petra von Kant crea pertanto un effetto di distanziamento. Quest’ultimo è a sua volta intensificato dal secondo elemento drammaturgico di diversità che Lupinelli introduce rispetto alle versioni precedenti di Fassbinder – e che stavolta avvicina il teatro al cinema. Si tratta dell’attività che il personaggio di Marlene svolge sulla scena, mentre resta muta dall’inizio alla fine. Nell’originale teatrale di Fassbinder, sappiamo che ella fa sicuramente ciò che è indicato da didascalia e il resto è immaginato dal lettore del testo, o dal regista che lo mette in scena. Il film la rappresenta come un personaggio centrale, sicché ne inquadra spesso la figura o il volto che monitora da fuori le interazioni tra le altre donne. La riscrittura di Lupinelli ricorre, invece, a una scelta icastica e molto originale. L’artista immagina che sia lei – la persona che solo di facciata sembra essere la più sottomessa nella dinamica di potere – a guidare la vicenda, tanto che la si vede muovere le altre cinque donne come manichini verso i loro incontri fatali. Il silenzio di Marlene è dunque più importante delle parole e delle azioni che si vedono sulla scena, la quale a sua volta risulta essere un campo aperto come un set cinematografico. Ci troviamo inoltre di fronte all’artificio supremo. Marlene è la discreta artista che incanala la passione e le dà quasi la forma di un arazzo. È insieme colei che partecipa di più alla passione, perché ne vede tutta la catena causale (tanto che potremmo leggerne il mutismo come un’incapacità di parlare, non una volontà di non dire), e colei che tesse l’artificio supremo.

Il discorso generale appena svolto può essere esteso alla specifica della scenata. Quest’ultima si rivela essere sbilanciata, stando almeno alla cornice barthesiana stabilita all’inizio, verso la ricerca del dominio sull’altro, più che verso la conoscenza di sé e dell’alterità. Petra che è immersa del tutto nelle scenate contro Karin le vive con spirito da lottatrice. Marlene che crea le condizioni per farle scoppiare forse lo fa per dominare dall’alto lo spettacolo che ha ideato. Non mancano, d’altro canto, momenti di apertura e di respiro dalla dinamica della lotta di tutte contro tutte, che Lupinelli sparge nella sua messa in scena. Ci sono, infatti, attimi di tenerezza gratuita che emergono loro malgrado tra le donne e che fanno dimenticare sia ai personaggi che agli spettatori la soffocante atmosfera bellica che avvolge la vicenda. In questi momenti, sempre per usare il linguaggio di Barthes, Petra e le altre conoscono loro stesse. Le loro scenate sono così un’occasione per diventare più consapevoli su cosa sia l’amore e come possa essere vissuto meglio, senza affettazione e desiderio di potere. Valga quale unico esempio la scena in cui la madre di Petra – altro personaggio in apparenza marginale come Marlene, quando in realtà dà una svolta decisiva all’azione – abbandona per un attimo l’affettazione e la freddezza, che aveva a sua volta usato nei rapporti con gli altri personaggi, per consolare la figlia dai suoi tormenti e aiutarla a uscire dalla spirale negativa in cui era avviluppata. Anche lei partecipa dunque alla scenata collettiva, ma stavolta per tentare di spezzarla e, probabilmente, vi riesce. Da qui in poi, del resto, gli animi si placano e la stessa Marlene che aveva dominato tutto da fuori interrompe il suo gioco registico, salutando Petra e gli spettatori con un canto. Svestite dei panni freddi e affettati che le fissavano nella dinamica di dominio, le donne possono adesso cercare negli altri interlocutori o amanti reali, non corpi da seviziare e possedere.

Siamo abituati a pensare che una scenata sia qualcosa di bruciante e radicale: un singulto che lascia di necessità qualche maceria dietro di sé. Lo stesso lavoro di Lupinelli parte da questa premessa, anche se asciuga la passione con lo schermo algido dell’affettazione. Con Sergio di Sarteanesi, questa abitudine cognitiva viene sfidata. La scenata che ha luogo è dimessa e ha effetti concreti, ma invisibili, come invisibile è il marito Sergio verso cui la donna e moglie protagonista si rivolge in un monologo poetico.

L’aggettivo più corretto per qualificare Sergio è “opaco”. Tutta la circostanza della rappresentazione è straniante, perché si ha l’impressione di intravedere solo una parte molto piccola del dramma più grande che resta sullo sfondo. La donna racconta minimi episodi di vita mondana e quotidiana, ora lodando il marito per una sua virtù, ora rinfacciandogli senza animosità o risentimento qualche gesto sciatto e trascurato, in altri termini mentre sintetizza eventi tutto sommato insignificanti. Eppure, tali dettagli risuonano come qualcosa di epocale e fondamentale. In queste piccole cose, infatti, la donna avverte un universo di senso e di rimandi al mondo più grande che sta al di fuori del piccolo cosmo della coppia. Il modo in cui Sergio apparecchia a tavola è forse insignificante in sé. Ma come è percepito da altri uomini e altre donne? Con quale spirito ripete questa azione ogni giorno? Che cosa tradisce questo suo semplice gesto sulla sua personalità? Sergio poteva apparecchiare in infiniti modi diversi, ma lo fa in un modo che lo rende unico. Il problema è che questa sua unicità non ci è chiara, pertanto nelle parole della donna risulta visibile soltanto il corpo e non l’anima dell’azione. L’opacità è dunque una questione al tempo stesso cognitiva e ritmica. Cognitiva, perché si ascoltano piccoli fatti che suggeriscono un altrove più grande e complesso. Ritmica, perché questa opacità di fondo è intensificata dal lavoro recitativo dell’attrice, che non calca le parole e i fatti dando così delle coordinate interpretative allo spettatore, bensì approssima ogni suo ritmo alla neutralità, dunque all’assenza di un significato definito. La recitazione non rischiara, ma ottenebra la comprensione.

Non si può nemmeno escludere che Sergio rappresenti una scenata rivolta a un uomo assente. L’attrice recita, dopo tutto, in uno spazio completamente vuoto e non si coglie con quale disposizione interiore racconti i piccoli fatti di vita della coppia. Forse Sergio è in un’altra stanza, il quale le risponde in modo talmente sommesso che lo spettatore non ode nulla? Forse lei dice queste parole in sogno? Forse la donna sta provando un discorso da dire al marito – che è spesso in viaggio, come lei stessa riferisce – non appena sarà tornato, con una precisione talmente maniacale da prevedere le sue possibili risposte e persino i suoi momenti di silenzio? O forse Sergio è addirittura morto, sicché lei rivolge a un’ombra del passato dei pensieri che non è mai riuscita a esprimere? Tutto ciò resta appunto avvolto dall’opacità, anzi in uno scenario talmente opaco che non sarebbe assurdo dire che la donna abita più possibilità nello stesso tempo. Forse, ad esempio, Sergio è morto, ma lei prepara un discorso come se dovesse tornare dal regno delle ombre, o persino lo pronuncia per riportarlo in vita. La conseguenza performativa di questo lavoro sull’opacità è l’ascolto di un monologo dal fascino avvolgente. Una delle leggi scientifiche che regolano l’esperienza drammatica consiste del resto nel principio che la visione evocata sulla scena, risulta tanto più interessante, quanto meno è definita e precisata. Ma l’opacità tradisce anche che la scenata che ha luogo in Sergio mira alla decifrazione di quell’Inconoscibile della coppia di cui parlava Barthes. La donna non vuole dominare il marito, come i personaggi di Fassbinder. Vuole capirlo, nomina ciò che lo rende unico e i suoi difetti per scoprire perché è così buono/bello, oltre che meschino in altre circostanze private e mondane. Lo sforzo resta comunque utopico e fallimentare, il che significa che l’opacità perde il suo carattere di enigma e diventa una chiara evidenza che il suo amato non può essere compreso. La notte in cui si precipita è provocata da un eccesso di luce negli occhi. Scrive a tal riguardo Barthes: “Non è vero che quanto più si ama, tanto più si capisce; ciò che l’azione amorosa ottiene da me è soltanto questa cognizione: nell’altro non c’è nulla da scoprire: la sua opacità non nasconde affatto un segreto, ma semmai una sorta di evidenza, nella quale si annulla il gioco dell’apparenza e dell’essere” (Frammenti di un discorso amoroso, cit., L’Inconoscibile, § 2). Si dice che l’arte sia specchio della realtà. Se questa metafora è plausibile, forse Sergio è uno specchio appannato, che riproduce una visione distorta di sé e dell’altro. Quanto più la donna pronuncia le sue parole, nello sforzo di capire l’oggetto del suo discorso, tanto più il suo respiro rende opaca la superficie e tanto più l’immagine riflessa perde gradualmente quei pochi contorni chiari che poteva avere all’inizio. Alla conoscenza di sé e dell’altro si può solo aspirare, l’amore è da vivere come un viaggio senza meta.

Si è così giunti alla conclusione che la cornice barthesiana è utile per capire meglio il lavoro di due pregevoli artisti e, forse, applicabile anche ad altri casi. Sul piano teorico, il maggiore risultato emerso è che la scenata può non essere necessariamente un momento di perdita di controllo a causa di una passione incontrollata. Per chi studia il fenomeno, o lo vive, si può persino intravedere una metafisica. Ogni scenata è forse un crocevia di una scelta tra il potere e la conoscenza, più di preciso tra due utopie, visto che si è convenuto che dominare o conoscere l’alterità è impossibile. È una decisione tra due piani di vita: tra quello materiale o fisico, perché la potenza è un bene spendibile nella vita concreta, e quello spirituale o appunto metafisico, giacché dalla sapienza si traggono soprattutto vantaggi su questo versante. L’arte – nel caso specifico di Inequilibrio 2021, il teatro – suggerisce che probabilmente la seconda via è più arricchente, che è meglio provare e fallire nell’utopia di amare-capire gli indecifrabili altri.

A cura di:
Elisabetta Cosci

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