L’eco del comico. Perché si ride quando non c’è da ridere?
di Enrico Piergiacomi
“Tempi comici” è espressione dai molti sensi. Può indicare quell’insieme di giochi ritmici, di pause/sospensioni, di brusche accelerazioni e di gesti o parole sorprendenti che usiamo quando raccontiamo una barzelletta.
Oppure, può essere un’allusione metafisica al fatto che i nostri tempi sono particolarmente ridicoli, se non all’apice del grottesco – ma di questo avremo modo di parlare in un altro appuntamento. O ancora, “tempi comici” può essere una complessa descrizione del rapporto tra temporalità ed effetto comico. Perché si ride in quell’esatto punto, non prima né dopo? Soprattutto, il comico coincide con il riso, o può precederlo e seguirlo?
Quest’ultimo punto suona paradossale. La concezione comune vuole che il comico coincida con il ridicolo: quando c’è l’uno, vi è inevitabilmente l’altro. L’identificazione può però essere smontata o almeno smorzata attraverso alcuni richiami all’esperienza. Prendiamo il solletico e le risa che emettiamo mentre giochiamo o scherziamo insieme. Si ride in entrambi i casi, ma non diremmo che si è attivato un processo comico, o che siamo precipitati dentro una commedia, perché manca quel qualcosa che trasfigura il riso in una visione artistica, o in una modalità di conoscenza. Il solletico genera solo una reazione nervosa, il gioco un divertimento passeggero.
Si potrebbe però obiettare che questi due esempi dimostrano che può esistere un ridicolo separato dal comico, non già che ciò il comico è sempre separabile dal ridicolo. Non tutte le risate sono commedie, ma ogni commedia necessariamente fa ridere. I “tempi comici” da cui siamo partiti sono allora l’occasione di una risata più sottile e complessa sia della reazione scomposta al solletico, sia del gioco effimero e divertente. Per avvicinarci alla tesi più ardita che vi può essere un istante comico senza ridicolo, può essere d’altro canto utile attuare un rapido confronto con la divisione tra temporalità e piacere.
La questione riguarda più precisamente il rapporto tra la causa e l’effetto. Il piacere può precedere, accompagnare o seguire al tempo in cui ha luogo un determinato avvenimento piacevole. Gli eventi simultanei sono i più frequenti e chiari. Quando si mangia, o si ha un orgasmo, o si danza la tarantella, o si guarda un quadro, il piacere è simultaneo all’attività del mangiare, del far l’amore, del danzare, del contemplare. Ma questi stessi eventi piacevoli possono trovare anche la loro causa nel passato. Un lauto banchetto di quattro ore fa o una bella mostra di dieci mesi fa può procurarmi, qui e ora, il piacere della sazietà del corpo e della soddisfazione della mente. Infine, questi eventi piacevoli possono anche trovare la loro causa nel futuro. Quando si anticipa nella mente di abbracciare la persona che si ama, o si immagina l’eccitante tarantella cui ci si abbandonerà dal tramonto all’alba, il piacere precede l’attività. Ne è il preludio e la promessa.
Ora, la stessa logica può essere applicata al rapporto tra il tempo della risata e il tempo della comicità. Il ridicolo può precedere, accompagnare o seguire al comico. L’esperienza ci aiuta ancora una volta a verificare la plausibilità di tale divisione. Prendiamo una barzelletta. Essa può far ridere subito, ossia mentre la si sente raccontare. Ma il tempo comico della barzelletta può anche derivare da un riso di un tempo passato o di un tempo futuro. Se ne ricordo una che è stata raccontata un anno fa, il comico segue alla risata. Se ne ascolto una che già conosco e attendo trepidante il momento in cui sarà conclusa, con lo scoppio di risa delle persone vicine che ancora non la sanno, il tempo comico precede lo scatto del riso. Dal momento che la comicità può insomma anche stare prima o dopo la risata, ne segue che essa ne è separabile. Come vi può essere un ridicolo senza comico, così vi può essere un comico senza ridicolo.
La lunga cornice che è stata fatta consente adesso di addentrarci in un fenomeno più complesso, oscuro e ambivalente, che è stato indagato da almeno tre spettacoli del festival Inequilibrio 2021. Mi riferisco a quello strano avvenimento in cui si ride di qualcosa che, di per sé, non ha niente di ridicolo, in cui non c’è nulla da ridere.
Il primo lavoro da isolare è Era meglio Cassius Clay di Rita Frongia, prodotto da Drama Teatro. Come in altri lavori della drammaturga, in particolare quelli della trilogia del tavolino, lo spettatore precipita in un sogno bizzarro in cui si avverte subito che qualcosa non va – lo evidenzia in un recente articolo anche l’amico Enrico Pastore. Abbiamo in questo caso la cornice di un’improbabile festa di animazione che l’ex attrice Clara pensava di allestire per dei bambini e, invece, scopre di dedicare a due strani figuri. Sono l’ex pugile Jimmy, ora su una sedia a rotelle e apparentemente regredito allo stato infantile per un forte colpo ricevuto al mento durante un precedente incontro, e Tex, vecchia promessa del pugilato che indossa una lunga gonna da donna e non sembra brillare per intelligenza (tra le battute che pronuncia più di frequente, in un cantilenante livornese, figurano «Praticamenteeee» e «Se ho capito beneee»). L’atmosfera è in bilico da subito tra la farsa e la tristezza. Nel corso della vicenda, i giochi infantili di Clara (botti, polverine magiche, karaoke, ecc.) si alternano alla malinconica recitazione dei sonetti di Shakespeare e di altre azioni poetiche, bagaglio del suo trascorso di artista, dando così l’impressione complessiva di una persona disperata, di un’anima bella obbligata dalla vita a umiliarsi per vivere. In questo gioco macabro e divertente insieme, si ride di una disperazione che non si riesce a descrivere, ma si può solo rappresentare.
Un altro lavoro in cui si ride di ciò di cui non si deve ridere è Jump! di Opera Bianco (Marta Bichisao, Vincenzo Schino). Il riso nasce dalle costruzioni ritmiche di due danzatori (Luca Piomponi, Samuel Nicola Fuscà) e dalle gags di due clowns (C.L. Grugher, Simone Scibilia), oltre che dal perenne tentativo di mescolare la purezza del movimento coreografico con il gesto impacciato del buffone di professione. Il comico subentra invece quando si riflette sulla risata cui ci si sta abbandonando e sull’obiettivo sotteso ai salti dei quattro performer. Ci si accorge che i loro inciampi sono tentativi di volo: letterale per i danzatori, della mente per i due clowns. Ciò tradisce, dietro la facciata del divertimento, la pantomima di una catastrofe. Si tenta di toccare il cielo e si frana con la faccia a terra. Si aspira a condividere il destino degli uccelli e si finisce per strisciare come lombrichi. Se nella poesia L’albatros di Baudelaire il volatile è deriso dall’equipaggio che lo vede claudicare sulla tolda, ma si riconosce almeno il suo volo maestoso e la sua regalità da «principe dell’azzurro», in Jump! questa poesia è desiderata, ma impossibile. L’inciampo dei quattro performer è mortale e folle come la caduta di Ofelia dell’Amleto di Shakespeare, che cerca di raccogliere dei fiori sulla riva di un fiume e precipita nell’abisso.
Chiaramente questo volo mancato non è senza commozione ed è un fallimento artistico, dunque un gesto che ha valore perché generoso e bello. La solidarietà umana ed emotiva dei quattro artisti emerge sempre più nel corso della costruzione ritmica. Le coppie all’inizio isolate diventano gradualmente, infatti, un unico corpo collettivo: a quel punto, la loro caduta diventa condivisa e non più una catastrofe privata. La traduzione fisica di questa solidarietà nel disastro si ha, inoltre, nei due gesti finali della performance: in un abbraccio tra i danzatori e nella creazione da parte dei due clowns di un grande naso rosso sul pavimento. Ciò non toglie che, sotto la luce accecante dell’ideale, i tentativi di volo dei quattro artisti risultano simili a ombre che si dimenano inquiete e a corpi che si feriscono con la caduta a terra. Se si guardasse pertanto Jump! dall’alto, non frontalmente come è accaduto a noi spettatori, non si saprebbe decidere se quel gran tappeto rosso disteso alla fine sia un naso da clown, o un lago di sangue rubino.
L’ultimo spettacolo consiste nei 7 contro Tebe di Massimiliano Civica e de I Sacchi di Sabbia, che è una riscrittura dell’omonima tragedia di Eschilo. Di primo acchito, sembrerebbe incongruo collocare questo lavoro in un ragionamento sul comico, proprio perché l’opera eschilea appartiene a un filone o genere diverso. La riscrittura di Civica e I Sacchi di Sabbia mira, in realtà, proprio a evidenziare il potenziale ridicolo che questo gigante della tradizione teatrale contiene in sé. Esso emerge, anzitutto, da un corretto confronto storico. Non appena viene paragonato agli esperimenti che facevano i suoi contemporanei Sofocle ed Euripide, si scopre, umoristicamente, che Eschilo realizza con i 7 contro Tebe un teatro di vuote macchiette. Alle donne eschilee piangenti e solo spettatrici della guerra di Tebe contro gli Argivi mancano, ad esempio, il coraggio dell’Antigone sofoclea e l’inventiva dell’Elena euripidea. Questo portato ridicolo è tradotto dagli artisti con la tecnica della caricatura. Se la macchietta della donna eschilea si deve vedere con nitidezza, tanto vale calcarla in modo debordante facendo recitare i monologhi che descrivono i guerrieri in lotta da due attori travestiti da donna, che recitano in napoletano. Dall’altro lato, il ridicolo dei 7 contro Tebe è di natura strutturale e gli artisti lo evidenziano asciugando all’estremo quello che Eschilo aveva di superiore rispetto a Sofocle/Euripide: la grandiosità dello stile e l’eroicità della materia. Se viene infatti spogliato dal verso misterico e dall’alone di dignità che avvolge gli eroi in lotta sulla mura, che cosa resta? Nient’altro che una successione di combattimenti tra dodici pupazzi stilizzati, sei tebani e sei argivi, che vengono presentati dalle donne tebane e poi ingaggiano uno scontro. Seguirà la battaglia senza vincitori ma solo con vinti tra i fratelli Eteocle e Polinice, che si uccidono a vicenda mentre prendono il comando militare dei rispettivi schieramenti.
L’ombra oscura che trasuda da questo lavoro è, in ogni caso, che si ride di una vicenda atroce, quale è appunto un fratricidio. Ancora una volta, si crea una dissonanza tra forma e argomento, tra il ridicolo da cui è connotata la struttura drammatica eschilea e la presa di consapevolezza comica che si sta godendo nel contemplare due fratelli che si scannano tra loro. Il portato risibile è così neutralizzato proprio nella conclusione della riscrittura. Quando gli eroi dei due schieramenti non sono più due pupazzi stilizzati, bensì due fratelli in carne, ossa, valore e sentimento, nemmeno il più cinico derisore può trovare qualcosa di cui ridere.
Cosa hanno in comune questi tre lavori, restando ovviamente entro la cornice concettuale che abbiamo proposto? Forse il fatto che ha luogo esattamente un riso che precede l’effetto comico. Prima si ride, poi si ha la comicità. E in questi tre lavori, il comico ha qualcosa di sinistro, perché il suo effetto coincide con l’esserci vergognati di aver riso così tanto – e di gusto – per qualcosa che a posteriori si rivela orribile. Il ridicolo e il tempo sono qui sanguinari, se non persino il preannuncio di una colpa che dobbiamo scontare e che ci perseguiterà come uno spettro che infesta la memoria. Il comico sopraggiunge, in altri termini, come l’eco perturbante dietro la festa di Era meglio Cassius Clay, la clownerie di Jump! e la riscrittura dei 7 contro Tebe, ma a cui abbiamo nonostante tutto partecipato con gioia sadica e sincera.
Perché dunque si ride quando non c’è niente da ridere? Le risposte al momento per me possibili sono due: una etica e una cognitiva. La prima vuole che il comico di questo genere sia l’espressione di un lato malvagio e intrinsecamente mostruoso dell’indole umana. Il riso è analogo alla boccata d’aria che si fa prendere a una bestia chiusa in gabbia e il comico al suo rientrare docile dentro la prigione. Tornando a ciò che accade nella nostra interiorità, la risata coinciderebbe con l’abbandono gioioso alla violenza discreta che ha luogo sulla scena, la comicità con l’attimo in cui ci si riscuote alla ragione e ci si vergogna di aver attuato un comportamento ferino. Non si può pertanto escludere che, se non ricevesse tale occasionale tributo di sangue dalla commedia, il mostro che è in noi arriverebbe un giorno a sfasciare le mura della sua prigione e a divorare tutto con ingordigia. In questa prima ipotesi, l’artista comico assolve la funzione morale di perpetrare una violenza minore (e simbolica) nello spazio della scena, per prevenirne una maggiore (e concreta) nella vita.
L’interpretazione cognitiva prevede, invece, che riso e comicità discendano da una nostra incapacità intellettuale di distinguere la verità dalla menzogna. Partecipiamo al massacro con distrazione perché intuiamo solo debolmente la gravità di questo atto, o non capiamo fino in fondo che la nostra risata è superficiale e colpevole. L’esperienza della colpa di aver riso di ciò su cui non c’era nulla da ridere ci allena così ad essere più cauti e raziocinanti. La commedia assume una funzione filosofica, mentre il poeta di teatro si rivela essere un fingitore che paradossalmente ci avvicina al vero. Si ride da stolti e si attraversa il comico per avvicinarci alla saggezza.
Non saprei dire quale delle due proposte è più plausibile – ammesso che non siano entrambe false, dunque il frutto di un abbaglio. Ci vorrebbe un supplemento di indagine, che magari potrebbe portare a scoprire altre ipotesi di risposta, oppure alla validità di entrambe. In questo terzo scenario, si ride sia per calmare la bestia, sia per diventare più saggi. Quale che sia il caso, si è raggiunto comunque il risultato positivo che il comico non è una forma, bensì un tempo. Esso coincide con quell’attimo in cui si passa dalla risata ingenua alla lucida vergogna della propria imperfezione e debolezza.