Luna Cenere: ripartire da zero, dove tutto è ancora una meraviglia
Intervista di Elena Pancioli
Incontro Luna Cenere, giovane danzatrice e coreografa in residenza ad Armunia, al Teatro Nardini di Rosignano Marittimo (LI), per parlare del progetto Genealogia dal quale nasce e si ramifica Zoé, un lavoro sul corpo sul quale ha lavorato durante la residenza, che debutterà in streaming il 24 febbraio
LUNA CENERE: Genealogia è un progetto che apre le porte a professionisti e amatori. Il lavoro è una vera e propria ricerca sul corpo nudo: dall’eliminazione di una serie di vezzi e di strutture, ripartendo dall’essenza della postura, del gesto, dello stare nello spazio. L’elemento della nudità permette il contatto con il proprio corpo, ci consente di sentirlo, di carpirne la tattilità, di esplorare il contatto con l’altro, quando questo è possibile. Ripartiamo da zero, dove tutto è ancora una meraviglia. Il nostro corpo si modifica dall’interno, si modifica con il nostro respiro. Dal respiro si modifica il nostro stare seduti, in piedi, stesi, sentiamo il corpo che prende vita, lo percepiamo nelle piccole parti, lo osserviamo che vibra sempre di più. È un progetto in cui credo molto non solo perché facciamo danza, ma anche perché fa bene in questo momento che stiamo attraversando, in cui il corpo è oggetto di limitazioni e paure, sottratto come il teatro stesso ed è espressione di una necessità.
Nella sinossi dello spettacolo scrivi che “E’ la costruzione di uno spazio in cui una piccola comunità di corpi è riportata al grado zero della vita. Uno spazio di ‘riflessione’ sul corpo e sull’esistenza che nella sua nudità si offre allo sguardo, umana, animale, spersonalizzata, acefala. […] Questi “appunti” sono quindi la trattazione di un tema che la memoria collettiva e le coscienze dell’oggi sono chiamati a interpretare. Emergono domande di tipo politico, sociale, culturale strettamente legate al tema del corpo contemporaneo, alle quali il processo non ha il compito di rispondere. L’arte deve invece toccare e turbare”. Cosa ti ha spinta a creare una performance separata dal progetto iniziale?
La performance si è manifestata naturalmente come una possibilità che ho voluto cogliere, come una conseguente evoluzione della ricerca quindi non separata dal progetto ma anzi è una sua naturale conseguenza. L’urgenza era quella di ricercare, è sempre questa la cosa principale, anche perché io credo che ogni artista abbia la necessità di essere curioso. La nostra urgenza è la curiosità fisica e intellettuale, non riesci quasi a dormirci la notte. Durante il periodo di ricerca con i professionisti che mi assistono nel progetto, Daria Menichetti, Davide Tagliavini, Ilaria Quaglia e Lucas Delfino, abbiamo iniziato a scrivere una metodologia e delle partiture che hanno poi dato vita a Zoé.
Il tuo è un lavoro concettuale, citi per esempio Corpus di Jean-Luc Nancy; quale riflessione hai elaborato intorno al concetto di Zoé e di corpo nudo?
Un processo di creazione e ricerca passa sempre per una fase teorica e di studio, che in molti casi precede di anni la messa in scena di uno spettacolo. “Corpus” di Nancy è un libro che ho frequentato molto e da cui ho preso diversi spunti “teorici”, così come da testi di altri autori come Agamben e Nietzsche. Poi la ricerca entra in sala e quelle riflessioni diventano una guida nel lavoro empirico di ricerca sul corpo e sul movimento.
Scrivere il progetto è stato per me un modo per tornare alla lettura di alcuni autori riconciliandomi con i miei studi di antropologia e sociologia e approfondendo la ricerca fotografica sull’immagine del corpo. In particolare, il corpo “di spalle” mi affascina poiché non si svela subito, non ha una proiezione così personale con il pubblico ma anzi diventa un paesaggio da leggere e interpretare.
Penso che il corpo sia un luogo che io abito ma che può essere abitato anche da chi l’osserva. Posso annullare la mia presenza diventando corpo, rendermi invisibile; eliminare la persona, il volto, andando indietro fino al concetto latino di maschera. In questo modo il corpo si fa spazio, diventa paesaggio così come il luogo teatrale.
Lo spettacolo raccoglie e sintetizza molte riflessioni sulla percezione dell’essere e dell’umano ed era inevitabile che mi confrontassi con il tema della condizione del corpo come “Zoé”. In un momento storico come quello che stiamo attraversando si sono moltiplicate le riflessioni sul tema del corpo politico e della “nuda vita” ed è un dibattito, ancora in evoluzione, che ha nutrito il processo in questi mesi e ampliato il mio sguardo critico.
A che punto sei del processo creativo?
Sono in continua ricerca e messa in crisi del processo. Nonostante sia ormai concluso, continuo a perfezionare dettagli e a osservare il corpo che, per me, deve essere questo e basta, ma è chiaro che il corpo in ogni suo gesto è veicolo di senso, porta con sé e su di sé le tracce del suo vissuto; siamo tutti figli di questo momento, quindi Zoé racconta anche l’essenza di ciò che in quanto umanità stiamo attraversando.
Ci sono piccole nascite di tanti piccoli corpi che cercano continuamente la verticalità, questo riaffiorare continuo che emerge dalla terra, che sparisce e riappare, è la vita nel modo più semplice: la nascita, il percorso e la fine di ogni gesto, corpo e di ogni elemento, la fine della luce, dello spazio. Quest’opera è una metamorfosi, è Zoé continua della vita. Siamo andati a scavare nel profondo del gesto, essenziale, necessario (un tema enorme nella danza, ma in questo lavoro specifico lo è ancora di più), è tutto ridotto al minimo. Un paesaggio in cui ogni dettaglio dà vita ad altro, fino all’esplosione e poi, dettaglio per dettaglio, questa cosa ritorna indietro, si scompone e si trasforma. È una genesi continua di postura e gesto, figlia di una condizione che noi assumiamo come corpi nello spazio.
Lo spettacolo debutterà in streaming; come ti stai ponendo nei confronti di questo tipo di fruizione?
Lo spettacolo debutterà in streaming con AMAT (Associazione Marchigiana Attività Teatrali) il 24 Febbraio. Mi sto preparando ad affrontare il tema delle riprese-video della danza, una sfida per il mio mestiere essendo io coreografa e non regista. Dovrò capire come tradurre la mia poetica e rendere la fruizione dello spettacolo più vicina possibile alla fruizione dal vivo. Impossibile forse, ma ci proviamo, perché è diventata una mia esigenza artistica ma anche nostra in generale. Lo spettacolo c’è e deve essere concesso al pubblico per me. Vogliamo farlo viaggiare e se a oggi il compromesso è solo lo streaming, io scendo a questo compromesso e affronto questo tema, una nuova sfida per me che accolgo mettendo in gioco la mia creatività.
Sento la necessità artistica di andare avanti, ho bisogno di dargli vita, di portarlo davanti al pubblico. Le residenze sono utili, perché ti danno un tempo di respiro: fai del lavoro, lo depositi, poi torni in residenza e decidi che cosa fare. Arriva poi l’urgenza del confronto con occhi estranei al lavoro. Il problema sta nel fatto che il video, per quanto ti metta in connessione con l’altro, ti toglie la sensazione viva, palpabile che noi danzatori percepiamo dal vivo. Il digitale è un oggetto diverso e va pensato e agito in quanto tale, a partire dal fatto che è un oggetto “domestico”.
Il teatro, invece, è un’esperienza fisica, dal momento in cui esco di casa, come ci arrivo, come ci entro e come mi siedo su quella poltrona; porto tutta me stessa a fare un’esperienza. È quello che oggi ci manca di più, uscire di casa e andare a fare un’esperienza di vita, connettersi con un altro ambiente che da subito ci parla, ci trasmette emozioni, di cui noi facciamo esperienza, il teatro deve essere considerato come tutte le altre forme artistiche una vera esperienza fisica, come un viaggio.