Cristina Kristal Rizzo e la creazione di un habitat: un lavoro sull’uguaglianza e la collettività
Intervista di Claudia Caleca
Cristina Kristal Rizzo, dancemaker attiva sulla scena della danza contemporanea italiana a partire dai primi anni novanta, porta al Festival Inequilibrio 22 la performance ULTRAS sleeping dances (versione Solo) un sistema di danze dai temi corporei semplici e lineari, sostenute da una playlist melodica e da una serie di oggetti ludici.
Com’è nato questo progetto? Quali sono state le tue suggestioni e riflessioni?
Cristina: E’ un lavoro che arriva dopo una mia fase personale e lavorativa molto lunga: Ultras tira le fila di altre creazioni. Il progetto si è evoluto in una zona dove la dimensione espressiva del corpo, del gesto e della relazione con il pubblico è più presente, fino a diventare uno degli elementi portanti del mio lavoro. Inizialmente ho immaginato nella mia mente un lavoro senza apparato scenografico o lumino-tecnico particolare, dentro un teatro e non in una scatola nera o comunque uno spazio chiuso con dimensione di frontalità dello sguardo,. Volevo realizzare qualcosa che potesse accadere in qualsiasi luogo, per esempio a Castiglioncello prenderà forma in un prato, quindi una situazione all’esterno dove è insolito vedere danzare.
La tensione all’origine del lavoro è l’aver immaginato la coreografia come un habitat. Il concetto centrale è l’idea del linguaggio, il considerare la danza non solo uno strumento che si utilizza per fare coreografie ma come qualcosa che crea, che risuona come possibilità dell’esistente. Per di più Ultras è connesso ad altri miei lavori che considerano la danza come qualcosa che appartiene a tutti, con principio intrinseco di uguaglianza. Penso che qualsiasi corpo abbia la danza dentro sè, anche se alcuni sono più specializzati e fanno emergere in modo poetico la bellezza, i dettagli, la trasformazione del corpo che è in continua mutazione, dinamico a livello energetico. Per me la danza è un flusso d’energia che s’innalza in uno spazio e un tempo definiti: ecco l’idea di habitat.
Le tue esperienze personali hanno contribuito?
Cristina: Solo durante il lavoro ho capito che Ultras ha anche una forte valenza autobiografica. E’ infatti arrivato dopo un lutto forte e vi è la presenza di una una dimensione esistenziale personale unita al modo in cui siamo tutti universalmente coinvolti. Ultras è anche un’esperienza collettiva di condivisione di un momento di lutto.
Qual è il motivo di una scenografia così semplice?
Cristina: In scena ci sono oggetti semplici, o oggetti ludici, che intervengono dentro la danza, la arricchiscono sul piano espressivo. Vi sono inoltre segni semplici, usati anche nel teatro e nel cinema, per creare immagini che appaiono nella danza e la spostano in un altro luogo.
Legandomi alla tua precedente definizione di “danza come uguaglianza” questo si riflette nella scelta di una scenografia semplice e un rapporto col pubblico “alla pari”?
Cristina: Si, nel guardare questa danza l’elemento del pubblico è fondamentale perché è direttamente a contatto. Emerge quindi la condivisione e la vicinanza di uno spazio e di un tempo comuni. In più la versione in Solo, di trentacinque minuti circa, manifesta ancor di più “la vita che si affaccia”. Il pubblico è profondamente immerso nello spettacolo e, a causa di ciò, subentra una forte partecipazione emotiva dal punto di vista del pathos.
E gli altri ballerini?
Cristina: Ultras nasce sì con cinque interpreti ma, nella mia mente, ho sempre avuto l’idea della possibilità della scomposizione. Il progetto è stato costruito su quattro danze che si susseguono e che, alla, fine diventano una cosa unica. Le danze quindi possono esser fatte da uno o cinque corpi e ciò che cambia è la percezione. In questo caso, la versione in Solo, genera un’intimità diversa: la solitudine del corpo mette in campo un altro tipo di intensità. Nella versione a cinque questa intensità si moltiplica.
Parlando della colonna sonora…
Cristina: E’ una playlist messa in campo da me personalmente. Per me la musica è un elemento importante che deve essere sia autonomo sia “parlare”, mettere in campo qualcosa. Non scelgo mai una musica che serve per qualcosa perché considero la musica come un elemento che, oltre a mettersi in collegamento con la danza e la coreografia, crea un ambiente e un habitat. In questo caso la scelta è andata verso la musica pop melodica dai toni stirati, a parte un brano “super pop” che fa emergere un altro tipo di “temperatura della visione” e che si accostandosi ad un segno teatrale definito in grado di cambiare l’immagine. Inoltre costituisce un controtempo visivo perché la visione si appropria del suo artificio e, nel mostrarlo, diventa vero. Il pubblico può quindi allentare lo sguardo, una contemplazione che si avvicina al sogno, quasi una dimensione di transizione quando osservi le cose con un’altra dilatazione. E’ un abbassare la presa sugli avvenimenti e godere del piccolo. Tornando alla colonna sonora in generale, la sua struttura è molto particolare perché non segue una dinamica spettacolare tradizionale, soprattutto nella durata e nel cambio delle danze. E’ come se ci fossero mutamenti drastici che portano la mia energia altrove e, insieme a me, quella del pubblico.
La formazione newyorkese quanto ha influito in Ultras?
Cristina: Anche se risale a molti anni fa, primi anni novanta, essa si è evoluta. Ho sì studiato la tecnica Graham ma non l’ho mai portata avanti come tipo di linguaggio. Però più vado avanti più mi rendo conto che l’esperienza americana è stata fondante. E’ come qualcosa che, nel tempo, si è evoluta e ha trovato più facce. E’ come una matrice che mi nutre ancora.
A che punto è la tua carriera?
Cristina: Sono nel momento migliore perché sono artisticamente libera. Durante la creazione faccio fluire liberamente gli eventi. L’approccio comprende quindi un tipo di esperienza priva di paura ma che accoglie le fragilità per lavorarci, potenziarla, farla emergere. In questo momento non mancano però le complessità. Non essendo più la “novità” ho bisogno di un altro tipo di sostegno. Inoltre anche l’energia cambia da quando sei più giovane. Nonostante ciò sono decisamente più libera, ho un modo unico di stare nel tempo. Inoltre mi ritengo fortunata perché il mio corpo mi permette di andare in scena da sola senza problemi anche se il modo di rapportarsi con la materia danza cambia e devo lavorare dettagliatamente e specificatamente sulla processualità del gesto.
Sono lavori più consapevoli quindi?
Cristina: Decisamente. Sono molto più voluti, più veri. Mi posso concedere questa libertà.