L’uso del corpo come archivio di memoria e mezzo d’espressione attiva secondo Gisela Fantacuzzi
Intervista di Benedetta Pratelli
Durante le due settimane di residenza artistica a Castello Pasquini Gisela Fantacuzzi ha tenuto il laboratorio “Il corpo attraversato” e ha avuto modo di portare avanti la sua ricerca sul progetto condiviso con il pubblico venerdì 23 Marzo dal titolo “Todo lo que si extiende en el aire”. Il lavoro è una indagine sulle tracce di memoria che rimangono intrise nel corpo e nell’aria, quando c’è un vuoto affettivo, e su ciò che lascia la mancanza. Nell’intervista che segue ho avuto modo di approfondire l’argomento, scoprendo i motivi e i pensieri che hanno determinato la nascita di questo lavoro. Un incontro interessante e ricco di spunti di riflessione, in cui abbiamo parlato anche della formazione dell’artista argentina, del suo modo di lavorare, dei progetti passati, della sua idea di residenza e di site specific.
La tua formazione è molto ricca e molto vasta: quando hai iniziato a indirizzarti verso questo specifico tipo di danza? È un obiettivo che hai sempre avuto fin da quando hai studiato coreografia o lo hai raggiunto nel tempo?
Diciamo che intuitivamente sono sempre stata alla ricerca di questa linea e di questo modo di lavorare. Intuitivamente però, senza conoscerla specificatamente: è come se la ricerca verso maestri, e spettacoli da vedere, fosse sempre stata indirizzata verso questa idea, questo modo di fare danza, o di fare arte, non so… Ho iniziato come tanti, studiando all’Università di Danza di Buenos Aires che sarebbe come l’Accademia Nazionale di Danza qui in Italia, e lì ho studiato coreografia e teatro-danza e ho conosciuto diversi; ma la vera formazione è iniziata dopo, quando sono scappata dall’università e dall’apprendimento di tipo accademico. Così è iniziata la mia ricerca mossa verso qualcosa di diverso. Sempre a Buenos Aires ho conosciuto Viviana Iesparra, che è stata per me una maestra molto importante, una guida verso ciò che stavo cercando. Ho continuato con lei, studiando: lei è una ricercatrice che utilizza la danza contemporanea come un mezzo per qualcos’altro; utilizza anche le tecniche di Feldenkrais, le tecniche teatrali, lo yoga… quindi integra la sua esperienza con delle tecniche somatiche, andando verso una ricerca molto specifica. La mia formazione inizia lì. Dimenticare la forma di un movimento estraneo al mio corpo da dover copiare e cercare invece la matrice del mio movimento. Questo è per me il lavoro di improvvisazione ed esplorazione.
Tu Gisela, hai fatto, corsi di diverso tipo, esferodinamia…in questo senso possiamo dire che la tua formazione oltre che molto ampia è anche molto varia.
Si, l’esferodinamia è una tecnica che ho imparato a Buenos Aires ed è il risultato della ricerca di una danzatrice che utilizza la sfera come punto di appoggio per il corpo: è una tecnica somatica. Parlo di tecniche somatiche intendendo tecniche di movimento che mirano al benessere. In questo caso la sfera come supporto affinché il corpo inizi a lasciarsi andare, a rilassarsi. È un lavoro che si sviluppa su più piani: muscolare, articolare e respiratorio, oltre che per fare stretching. Tutte queste tecniche, che definirei complementari, mi hanno aiutata a raggiungere quel corpo sensibile, che può poi andare anche in scena.
Avendo girato tanto, come mai hai scelto di stabilirti in Italia?
L’amore muove le montagne (sorride). In realtà la mia famiglia è italiana, i miei genitori sono italiani e sono andati in Argentina quando erano molto piccoli, quindi io sono nata là. In Argentina io ero “l’italiana”, ero “quella della famiglia italiana”. Poi i miei genitori sono tornati a vivere qui in Italia nel 2001, quando in Argentina c’è stato il disastro economico. Dal 2001 ogni tanto io venivo qui a trovarli per stare in vacanza con loro e poi nel 2010 è successo (ammicca sorridente al corridoio, dove è appena passato il compagno)…quindi ora sono qua!
Tra i molti lavori che hai realizzato compaiano sia progetti individuali sia progetti collettivi, che hanno obiettivi di tipo sociale: qual è il modo di lavorare che ti è più congeniale? Cosa e quanto cambia praticare danza a livello individuale e praticare danza nel sociale?
Bella questa domanda, non me l’hanno mai chiesta!
Credo che il lavoro sul sociale in realtà abbia a che vedere con il mio modo di essere emotiva, sentimentale, con una storia particolare, legata al luogo di appartenenza. Da ciò deriva questo mio sentirmi vicina alle persone emarginate.
Magari è questo il punto di incontro tra tra il lavoro individuale e quello collettivo [lavorare nel sociale o in una dimensione privata], forse è quasi come dire la stessa cosa, poiché è sempre un lavorare sulle mie sensazioni, sui miei progetti sulle mie cose…sia nella dimensione privata sia in quella sociale la via di comunicazione è quasi la stessa, perché in realtà parte comunque da me, dai miei vissuti, dalla mia esperienza e dal desiderio. L’esperienza di lavoro nel sociale o con persone svantaggiate c’è stata sempre, non solo facendo performance ma anche in Sud America, lavorando in progetti dove si facevano laboratori nei quartieri più poveri, dove c’era meno accesso alla cultura, ma in cui comunque era possibile, ed è possibile, trovare una forza che ti fa dire “ok, è qui che voglio lavorare, è questa l’energia di cui ho bisogno”.
Poi credo che ci siano anche dei momenti nella vita in cui magari ti ritrovi, a fare un lavoro sulla tua esperienza, che può in fondo essere comunque anche l’esperienza di tutti, no?
Certo, mi aveva in generale colpito molto questo tuo coniugare un lavoro fortemente individuale con un lavoro invece pubblico, anche il progetto in Abruzzo [RACCOLTO: paesaggio di danza, teatro, suono e cibo], per esempio…
Quello in Abruzzo per me è stato anche il modo per conoscere una zona dove vivo, l’entroterra, in cui ci sono paesini in via di spopolamento, in cui ci saranno si e no duecento persone, oppure paesini che sono stati quasi completamente abbandonati e non c’è più nessuno. Ritrovarsi con la ricchezza di quelle zone, con la ricchezza delle persone, con le vecchiette, magari, con dei bambini (se ce n’è rimasto qualcuno) per me è stato anche un po’ ritrovare parte della mia storia familiare, le mie origini, che comunque mi attraversano e sono parte di me. Ecco queste cose accadono: progetti che sono sempre esperienze molto forti e in cui quando trovi finalmente la chiave di lettura dici “ecco! Questo è l’utilizzo dell’arte come mezzo di comunicazione, come mezzo di conoscenza!”.
Riguardo al progetto “Todo lo que se extiende en el aire”, quanto è collegato questo lavoro con il laboratorio dal titolo “Il corpo attraversato”?
Guarda è incredibile ma è uscito così…non lo so…è partito tutto l’anno scorso da gennaio 2017. Sono nati tre progetti da quel periodo: il laboratorio “Il corpo attraversato”, il progetto di spettacolo “Todo lo que se extiende en el aire” e mio figlio!
Sono nati parallelamente perché è come se uno fosse andato ad alimentare l’altro, avendo come base una ricerca più specifica sull’utilizzo del corpo come mezzo di espressione e l’utilizzo di diverse tecniche somatiche. Una riflessione su ciò che resta nel corpo come memoria: andare a ritrovare questa memoria che resta nel corpo, e trasformarla in danza, in suono, in azione. Ho ritrovato anche dei video che mi hanno riportato a questa memoria, a determinate associazioni e anche questo laboratorio è andato ad alimentare questa idea e la volontà di vedere cosa sarebbe successo se io avessi sperimentato il laboratorio su me stessa. Lì è nata la performance, che in realtà aveva ancora un altro antecedente: nel momento in cui una persona non molto vicina a me è morta, infatti, ho iniziato a interrogarmi sulle rimanenze, sulla scia, sulla memoria che resta delle persone che vivono e poi non ci sono più. Cosa succede nel movimento, con i suoni? C’è qualcosa che resta nell’aria, sospeso, no? Quindi è anche una ricerca sull’accadimento degli eventi, che ci lasciano una memoria sul corpo e che ci segnano in qualche modo.
Infatti ho visto che definisci “punti di ispirazione” anche il romanzo di Proust e altri video…
Si, si! Per esempio anche il musicista del quale utilizzo la musica è un compositore argentino che si chiama Hernàn Vives, molto sensibile, e anche lui sta facendo un lavoro di sperimentazione sulle cerimonie di Ayahuasca. Portando avanti una ricerca sui resti e le sensazioni dei suoi vissuti, Vives utilizza queste esperienze per creare. Anche in questo caso è una ricerca sul come utilizzare l’esperienza e cosa essa ci lascia.
Cosa significa per te essere in residenza? Una parola che la definisce?
Sostenuta: mi sento sostenuta, come persona e come artista (parlo almeno di questa residenza). Una situazione in cui le condizioni si aprono perché tu possa fare il tuo lavoro.
Rivolgendomi esclusivamente a residenze che non implicano un progetto site specific, ti chiedo in maniera forse un po’ provocatoria: secondo te le residenze artistiche sono davvero necessarie? Ha così tanto valore l’essere in residenza? Serve davvero lo stare in residenza per il lavoro che fai?
Sai che infatti anche io molte volte mi sono chiesta questa cosa….Parlando per la mia esperienza, in realtà, è sempre come se un lavoro iniziasse in quel luogo, anche se non si tratta di site specific o di lavoro con il territorio. Per me in residenza tutto diventa stimolo che va a creare il mio lavoro: anche ora, in questo progetto, io mi sono ritrovata a fare un lavoro assolutamente site specific. Già l’anno scorso avevo lavorato sempre su, nella stessa sala, e lì ci sono le finestre, la natura che entra da fuori, le due stanze, la porta…tutto questo contribuisce a creare il lavoro… i suoni del castello, le persone, i tecnici che vanno e che vengono. Quindi per me il progetto si sviluppa proprio dentro a questo contesto, insieme al contesto.
E unire la dimensione privata con la pubblica? Stare qua con il compagno, il figlio, vivere in residenza, essere sempre qua e non staccare mai, non dire mai “vado a casa”, com’è?
Bellissimo…
È la prima volta che faccio una residenza con un figlio, ed è bellissimo: mi sento completa, non ho bisogno di pensare “ok, vado via dal castello, stacco, chiamo a casa e sento come sta il bambino”…siamo tutti qua ed è una vita che fai insieme. Staccherò quando torneremo a casa, quando diremo “ok, e adesso? come continua ora? Come lascio fermo lì ciò che ho creato in residenza in modo che non scappi niente? “Metterlo in freezer” e poi vedere come si continua”.
Per me è bellissimo…lo consiglio!