Il cappotto e il suo doppio. Alessio Bergamo e la ludica di Gogol
“Giocare con il potere” è un’espressione che può essere interpretata in due modi. Da un lato, potrebbe indicare una persona o un’istituzione che abusa di una potenza innata o acquisita per scopi puerili, futili e insensati, quindi per un gioco vuoto. Dall’altro lato, “giocare con il potere” potrebbe anche avere l’accezione positiva di scherzare con i potenti, di metterli alla berlina e ridimensionarne la presunta grandezza. Si tratta di un modo paradossale di prendere la potenza sul serio (= osservandola per quello che è) senza prenderla per nulla sul serio. Ciò rivela, indirettamente, la natura ambigua e persino misteriosa del gioco o dell’esperienza ludica, che in un certo senso è un «puro neutro». Può infatti assumere tanto la forma cattiva del capriccio infantile e privo di finalità, quanto la disposizione buona di conoscere la realtà e l’umanità per mezzo del riso.
Crediamo che il tema sia sviluppato e approfondito dalla recente messa in scena di un adattamento del racconto Il cappotto di Gogol, prodotto Cantiere Obraz/Teatro dell’Elce e in collaborazione con Postop Teatro, con la regia e drammaturgia di Alessio Bergamo. Dopo alcune residenze artistiche presso Armunia, Capotrave/Kilowatt, Catalyst, Vera Stasi, Teatro di Cestello, Teatro Solare, il lavoro ha ufficialmente debuttato al Circolo ARCI Casa del Popolo Caldine all’interno del festival Il respiro del pubblico.
Sia l’originale letterario che la creazione teatrale che ne discende compiono un’indagine insieme ludica e seria della giocosità distruttiva del potere. L’ambiguità del gioco esplode così in tutto il suo carattere labirintico.
È noto che il racconto di Gogol racconti la vita grigia e il dopo-vita straordinario del funzionario governativo Akakij (dal greco ἄκακος, letteralmente “il senza male”, ossia il puro e l’innocente che non conosce né compie malvagità). L’esistenza di questo personaggio procede dapprincipio in modo appartato e anonimo: egli conduce il lavoro onesto di trascrittore di documenti governativi, si mantiene con un vitto semplice e un modesto salario, la sua pace non viene lusingata da alcuna tentazione mondana che gli offre la città di Pietroburgo. È un uomo appagato dalla propria vita, non ha né sogni, né desideri, né voglie, né ambizioni; si sente felice e soddisfatto nel trascrivere i testi il cui significato non è in grado di capire, ma la cui lingua – artificiosa e oscura – lo incanta. Un giorno, però, il cappotto pieno di toppe che lo difendeva dal freddo pungente della Russia diventa inutilizzabile e Akakij è costretto a comprarne uno nuovo da un sarto, sostenendo altre piccole privazioni quotidiane per racimolare la cifra richiesta. Il nuovo abito quasi trasforma l’uomo agli occhi dei colleghi del ministero e dei suoi concittadini, tanto che viene invitato agli stessi eventi mondani da cui finora era riuscito a tenersi lontano. Questi piaceri sono presto infranti quando il cappotto viene rubato. Akakij si scontra con l’indifferenza generale delle forze di polizia, delle istituzioni e di un generale, o della «persona di significanza» a cui si rivolge in un ultimo, disperato tentativo di ricevere aiuto e dal quale, invece, viene scacciato per il semplice gusto di sfoggiare ed esercitare il proprio superiore potere. L’uomo alla fine muore per l’umiliazione e il freddo da cui non si poteva più difendere, ma ottiene una vendetta postuma. Akakij risorge come uno spettro e deruba i cittadini di Pietroburgo dei loro cappotti, trovando pace solo dopo essersi impossessato di quello della «persona di significanza» che non aveva voluto aiutarlo da vivo.
Il racconto viene rappresentato nella sua interezza dalla versione teatrale di Bergamo, che a un primo livello intensifica la dimensione insieme grottesca e comica dell’umanità di Gogol, di quelle Anime morte che costituiranno l’oggetto centrale dell’ultimo romanzo dello scrittore. La scena è infatti distorta in modo volutamente esagerato per dare impressione comica ai luoghi deputati agli offici e alle delizie dei potenti. Il ministero è attraversato da improbabili funzionari che si passano documenti di Stato muovendosi a ritmo di musica su pattini a rotelle. Le feste della città di Pietroburgo vengono animate da amanti leziosi, da ubriaconi, dagli stessi funzionari in atteggiamenti folli e scomposti, sicché risulta quasi normale che, dopo essere uscito da un festino organizzato dal suo capufficio, Akakij vada a un cinema dal cui schermo escono all’improvviso i personaggi della pellicola 007, eroicamente intenti a spararsi addosso tra le fredde strade pietroburghesi. I posti di controllo e i funzionari di polizia sono retti da agenti che sorvegliano senza sorvegliare, indagano senza indagare, ascoltano senza ascoltare, vale a dire fingono soltanto di svolgere il proprio lavoro di tutori della giustizia. Anche la «persona di significanza» ne esce grottescamente distorta, quando viene vista al di fuori del suo temibile ruolo istituzionale e nella sua casa. Il lessico familiare che adotta verso la moglie e i figli è fatto da frasi del tutto fuori contesto, quali «Come osate?», «Lei non sa con chi sta parlando», «Severità, severità, severità». Tutto ciò darebbe l’apparenza di un gioco innocuo, se non si stagliasse con nitidezza l’idea che è proprio da questa follia che promana l’indifferenza generalizzata che uccide Akakij, l’unico innocente in un mondo di malvagi inconsapevoli e di ignavi per abitudine. Potremmo paragonarli ai sicari vestiti da pagliacci («pallidi e grassi, con cappello a cilindro») che nel finale de Il processo di Kafka picchiano a morte Josef K. con delle sorde manganellate e «come un cane», per la sola “colpa” di essere nato.
Questo primo livello di rappresentazione coincide con la ludica dal senso negativo di cui si parlava all’inizio. Il potere vede come un gioco l’atto di massacrare i puri come Akakij, e la scena di Bergamo ci mostra ironicamente la comica tranquillità con cui esso versa il sangue innocente. A intensificare tale dimensione è anche la cornice della messa in scena de Il cappotto. Qui il personaggio dell’Autore (= Gogol stesso) viene bloccato da un poliziotto sia all’inizio che alla fine della rappresentazione, quando tenta di «nominare invano il sacro nome delle istituzioni», ossia di indicare con precisione quale siano i ministeri e le caserme nelle quali è ambientata la drammatica vicenda di Akakij. La cornice mostra che il potere sia tanto onnipervasivo (infatti, l’agente di polizia continua ad ascoltare dietro le quinte tutto lo spettacolo, pronto a scattare in difesa del buon nome dello Stato), quanto preoccupato esclusivamente della forma nominale, mai della sostanza. Ciò accresce il senso del mostruoso e insieme del ridicolo che pervade la macchina statale, la quale agisce come un bestione suscettibile e dalla violenza inconsapevole.
Ma accennavamo anche al fatto che Il cappotto contiene in più una ludica buona, o che dà a conoscere qualcosa di positivo. Esiste, in altri termini, un gioco comico che dà accesso a un piano superiore a quello istituzionale e umano. La commedia è per Gogol (e per Bergamo che vi attinge) uno spazio in cui la fantasia poetica può entrare in contatto con il sovrannaturale che si annida in segreto tra il corpo indifferente dello Stato.
Per valorizzare tale punto, conviene però un passo indietro e guardare un’altra volta all’apparizione dello spettro che chiude Il cappotto. Una falsa prima impressione è che l’episodio sia una sorta di prosa posticcia nel racconto per il resto realistico: una consolazione immaginifica che finge che i deboli e gli innocenti possano trovare soddisfazione almeno dopo la morte. Ora, però, la versione de Il cappotto di Bergamo rivela che esiste una continuità forte tra il realismo di quanto precede e l’evento sovrannaturale che chiude la storia di Gogol. Lo spettro appare, infatti, come la logica conseguenza dell’azione, più precisamente come un “doppio” di Akakij che agiva invisibile ben prima, tanto che lo si poteva scorgere attraverso alcuni segni visibili. Prendendo a prestito le parole di Craig (The Ghosts of William Shakespeare, in F. Marotti [a cura di], Gordon Craig: Il mio teatro, Milano 1971, p. 153), potremmo dire che Bergamo immerge lo spettatore «nell’atmosfera della sua [scil. dello spettro] venuta a tal punto da sentire la sua presenza anche prima di vederlo». Il comico rappresenta il processo di conoscenza, insieme emotivo e cognitivo, tramite cui l’assenza diventa presente.
Emotivo, perché attraverso il riso amaro ci si immedesima nel dramma di Akakij e si entra in rapporto empatico con la sua disperazione. Cognitivo in quanto la risata fa cogliere alla mente l’esistenza di due forze in lotta tra loro: quelle istituzionali, che distruggono i deboli e gli innocenti, e quelle sovrannaturali o spettrali, che si muovono all’interno delle istituzioni e possono in potenza minarne l’assetto.
Secondo il principio del simile che conosce il simile, questo analogo visibile dello spettro invisibile (= del doppio di Akakij) consiste nei cappotti indossati dai cittadini pietroburghesi. Diversamente che dal testo di Gogol, questi indumenti sono autentici personaggi, che attraversano lo spazio scenico e accompagnano sempre i loro indossatori, interagendo con questi ultimi in modi che rispecchiano la loro personalità. Il cappotto della «persona di significanza» incede e agisce, ad esempio, con la disposizione autoritaria e attenta alle formalità che caratterizza l’umano che lo veste. Sotto un altro punto di vita, dunque, gli indumenti sono a loro volta “doppi” spettrali degli uomini e delle donne, o corpi fantastici che incarnano i valori e le credenze su cui conformano la propria vita. Ne segue che la scena de Il cappotto brulica di fantasmi, prima della morte tragica di Akakij. Essa è un quadrato magico in cui avviene una comica danza macabra che rivela un aspetto importante dell’essere umano. Ciò che si indossa è la figurazione fisica di una relazione di potere in atto. Il cappotto funge da correlativo metafisico e oggettivo della potenza individuale/istituzionale.
Se è così, il vecchio cappotto e il nuovo sono protagonisti dello spettacolo, in quanto rappresentano due lati dell’anima di Akakij, ovvero due tappe del suo cammino terrestre. Essi ci permettono di capire meglio il dramma umano di questo piccolo impiegato. Infatti, il momento in cui egli accetta il fatto che il vecchio cappotto non si possa più risistemare e decide di ordinarsene uno nuovo segna una svolta radicale nella sua esistenza. Per Akakij è un momento di trasformazione profonda quanto irreversibile: diventa un uomo che desidera qualcosa, la cui vita ha ormai uno scopo. Il cappotto di qualità – gradevole dal punto di vista estetico – diventa quindi qualcosa che può arricchire la sua esistenza di un po’ di bellezza. Più che un oggetto il nuovo cappotto è un sogno, una speranza, l’impulso dell’anima per uscire dalla quotidianità grigia e vuota, un desiderio subconscio di rompere la solitudine e di sentirsi in contatto con gli altri.
Ed è significativo che i due cappotti abbiano sembianze femminili. In effetti sembrano due donne: la prima è sconcia, ripugnante, devastata dal tempo, ma lungi dal provare ribrezzo nei suoi confronti, Akakij ha con lei un rapporto intimo e famigliare. Non si accorge della sua bruttezza, così come non vede quanto è insulsa la sua vita di modesto funzionario, piccolo ingranaggio di una macchina burocratica mostruosa e oscena. Il nuovo cappotto, invece, è una donna giovane e attraente – a giudicare dalle bellissime gambe e dall’atteggiamento sicuro e femminile che sfoggia in ogni sua posa – che Akakij comincia a desiderare prima ancora di possedere. Entra in scena come una promessa di vita migliore, di molte belle cose che mancavano ad Akakij senza che lui se ne rendesse conto.
Promessa che, purtroppo, non viene mantenuta. Il sogno svanisce allorché il cappotto viene rubato e, venendo meno la speranza di ritrovarlo, anche la vita stessa si estingue. Se in passato Akakij accettava umiliazioni, beffe o insulti senza mai lamentarsi, ora non riesce a rassegnarsi alla perdita; si ammala e si spegne, senza più essere in pace con il mondo che era stato indifferente e crudele nei suoi confronti. Prima insomma indossava gli spettri dei due cappotti – incarnazione della rassegnazione, il primo, simbolo di rinascita e rinnovamento, il secondo. Ora diventa egli stesso un cappotto o spettro senza corpo e svela la parte più nascosta della sua anima, desiderosa di rivendicare la dignità umana che gli era stata tolta dagli altri più potenti di lui.
Non è perciò un caso che, morto Akakij, il suo fantasma decida di perseguitare i vivi colpendo i loro indumenti. Se infatti esso attaccasse in modo diretto gli uomini e le donne, sarebbe un’apparizione pittoresca, ma tutto sommato trascurabile. Lascerebbe in tal modo immutata la logica del potere che ha tanto infierito su Akakij vivente. Invece, attaccando i cappotti o i “doppi” di uomini e donne, tra cui quello della «persona di significanza», lo spettro mina appunto la loro potenza, ossia la loro essenza simbolica e metafisica, e restituisce dignità agli umiliati della città. Non appena vengono spogliati dei loro abiti, gli esseri umani si rivelano essere tutti uguali – parimenti significanti o, che è lo stesso, egualmente insignificanti. Senza il potere che fa distinzione tra alto e basso, importante e irrilevanti, Akakij e il generale appaiono esseri in balia di forze sovrannaturali più grandi di loro. E poiché un proprium della commedia è la capacità di smascherare le false distinzioni sociali e istituzionali, mostrando quel che uomini e donne sono nella loro nudità, il teatro de Il cappotto che denuda i personaggi delle loro vesti simboliche si rivela essere, come volevasi dimostrare, un teatro programmaticamente comico.
Un adagio proverbiale vuole che l’abito non faccia il monaco. Ma si tratta di una formula che inganna con la sua banausica semplicità. L’abito – in questo caso il cappotto – fa il monaco, per estensione il potente e il debole, il carnefice e la vittima. Il primo passo per smantellare la logica che consente di operare queste distinzioni tra gli esseri umani è pertanto spogliarsi dei vestiti con cui ci mascheriamo, esponendo la carne nuda al brivido freddo del mistero.
[Il pezzo è stato scritto a quattro mani da Enrico Piergiacomi con Maria Pavlova ed è stato visto il 20 novembre 2021, presso il Circolo ARCI Casa del Popolo Caldine. Le foto sono di Andrea Scopelliti.
Per altre informazioni sul lavoro su Gogol, di Alessio Bergamo, Cantiere Obraz e Teatro dell’Elce, o in generale sulla loro attività artistica, si consiglia la lettura delle interviste rilasciate a Renzo Francabandera (https://www.paneacquaculture.net/2021/12/01/__trashed-6/) e a Elena Pancioli (https://fondazionearmunia.alsolutions.eu/2021/02/dialogo-regista-alessio-bergamo/), nonché la recensione di Matteo Brighenti (http://www.paneacquaculture.net/2021/12/10/il-cappotto-gogol-e-la-bellezza-evocativa-de-gioco-dattore/