Tra fenomeno naturale e artificiale: Phenoumenon di T.H.E. Dance Company, esplorazione di una realtà aumentata
di Angela Forti
Che rapporto intratteniamo, oggi, con il fenomeno naturale? Fino a che punto questa definizione tende a coincidere con quella di catastrofe e cataclisma, come la pandemia ha modificato la nostra percezione della natura? Quali lezioni possiamo trarre dal dissesto socio-politico in cui ci troviamo immersi?
La singaporiana T.H.E. Dance Company tenta di affrontare la questione con la danza, con il movimento in un buio rischiarato da bagliori improvvisi, dove corpi si aggregano per poi respingersi e separarsi. Lo fa, però, a Singapore, poiché le attuali condizioni non permettono al Festival Inequilibrio di accogliere e ospitare la compagnia asiatica. Lo fa a Singapore ma ci invita, dalla lontana Italia, a prendere parte il più possibile e per quanto possibile alla sua ricerca tramite la tecnologia della realtà aumentata, tra le più recenti, difficilmente esplorate a causa dei costi.
Ad accogliere i pochi spettatori di Phenoumenon 360 qualche poltroncina a sacco e, per ognuno, una specie di uovo – un contenitore dalla forma vagamente aliena – che custodisce il visore, il cursore, un elegante dépliant. L’esperienza dura circa 70 minuti, tuttavia lo spettatore può scegliere quanto tempo rimanere, quando interrompere la visione. Non riuscirò mai a stare qui 70 minuti – penso. Sembra un tempo molto lungo, soprattutto per una fruizione mediata dal visore, scomodo e pesante.
Con una breve introduzione video la compagnia spiega che lo spettatore potrà decidere in che modalità fruire lo spettacolo: tutto intero, con un punto di vista dalla compagnia consigliato, oppure in capitoli, per ognuno dei quali è possible scegliere tra due e tre posizioni differenti. Lo spettacolo, infatti, è concepito per uno spazio performativo non tradizionale, in cui gli spettatori sono disposti singolarmente, in punti dislocati per la sala, mentre i danzatori si muovono ora tra di loro, ora su una striscia di palco ricavata su un lato dello spazio.
Inizio con la visione integrale, con la posizione da loro consigliata. Mi guardo intorno: ci sono i performer, che piano piano emergono da tuniche colorate, raggomitolati in uova vagamente aliene, ma soprattutto ci sono gli spettatori. Quelli veri, quelli che stavano a Singapore quando lo spettacolo è stato registrato. E questa cosa mi stupisce, soprattutto nel momento in cui mi accorgo di trovarmi esattamente al di sopra di uno di loro. Se guardo in basso ne vedo la testa – una discreta calvizie, il bordo degli occhiali. La cosa mi mette a disagio, e soprattutto mi stranisce il fatto di non avere – in questo spazio virtuale – alcuna corporeità. Il che è ovvio, non avendo addosso io alcun sensore. Ma non l’avevo considerato, e la cosa mi stranisce e mi fa pensare.
I danzatori danzano, si muovono intorno a me. Cerco di inseguirli con lo sguardo: sia l’audio che il video sono progettati per seguire i movimenti della mia testa e rendere l’esperienza il più possibile realistica. Ma la poltroncina a sacco un po’ mi ostacola, non riesco a girarmi del tutto. I danzatori non sono nitidi come vorrei – colpa mia che, affidandomi alla tecnologia, ho dimenticato di mettere gli occhiali. E poi quel senso strano di trovarmi a mezza altezza. Sopra la testa dello spettatore, appena troppo in alto per avere una visione davvero naturale di quello che avviene accanto a me.
Presto mi stanco di questa visione. I danzatori danzano con una delicatezza infinita, si intrecciano, si accompagnano, ora lottano, la musica incalza e trascina. Ma non ce la faccio più a non sentirmi lì, è straziante. Non riesco a seguire i loro movimenti, non riesco a percepire gli altri spettatori, quelli veri, non ne vedo il volto – se non di alcuni, distante, coperto da un’ormai immancabile mascherina – solo la nuca. Questo spettacolo non è per me, è per loro. Mi sento ignorata, percepisco perfettamente il fatto di non avere alcun ruolo in ciò che sta accadendo.
Quindi inizio a viaggiare, con il mio cursore, nel menu dello spettacolo. Riprendo dall’inizio, ma nella seconda modalità, quella per scene. Inizio a vagare per questo spazio strano. Ogni scena la vedo ora da qui, ora dall’altra parte della sala; salto da una postazione all’altra, tutte quelle che questo strano dispositivo mi mette a disposizione. Non sono più i performer che si muovono intorno a me ma sono io che li inseguo, ora gli salto alle spalle, ora mi ci trovo in mezzo. Vedo meglio i dettagli dei corpi scolpiti e potenti, vedo i loro volti e, finalmente, vedo gli spettatori, sparsi nello spazio. Trovo persino qualche postazione tutta per me, che non condivido con nessun singaporiano. Seguo la musica, mi sembra quasi di sentire un odore nell’aria, un odore di agrumi, di rose, che si sparge per lo spazio. E così, mentre loro mi raccontano dei virus, dell’incontro-scontro, infinita guerra e pace con la natura, la natura che non puoi prevedere e che non puoi controllare, io inizio a chiedermi cosa accade quando al rapport tra uomo e fenomeno naturale si aggiunge quello, ulteriore, con il fenomeno artificiale e tecnologico.
A tutti gli effetti sto facendo quello che a quegli spettatori veri, seduti in sala, non è permesso. A loro è stata affidata una postazione fissa. Tante diverse postazioni fisse, anche se dislocate nello spazio scenico invece che in una platea. Un espediente che fa del teatro un’esperienza potenziata nel rapporto ravvicinato tra performer e spettatore e nella condivisione di uno spazio comune. Un teatro che rende evidente come la visione, l’esperienza della visione, non possa che essere l’insieme di punti di vista differenti, e come il singolo non possa, nella sua giusta e naturale e affascinante limitatezza, cogliere la totalità delle cose. Quest’idea suggerisce, inoltre, che l’unico mezzo per il raggiungimento di qualsivoglia fine e, per di più, della verità, sia la cooperazione, la collaborazione, la condivisione dei punti di vista.
Ma cosa succede ora? Ora che, potenzialmente, sto assumendo su di me il punto di vista di quattro, cinque, sei spettatori diversi? Ora che l’opera d’arte viva che sbircio da questa mezza altezza, quasi di nascosto, è davvero tridimensionale, perde e conquista ogni forma nel suo avvenire? Forse non accade nulla di diverso. Alcuni punti di vista non saranno mai tutti. Quella totalità rimane comunque irraggiungibile.
Mi rendo conto che mi sto distraendo. Dovrei riflettere sulla potenza della natura, sulla sua componente più selvaggia e incomprensibile, e su quello che questi corpi precisi e ritmici mi stanno dicendo. Dovrei riflettere su questo mondo impazzito, su un sistema economico destinato al suicidio e che trascina con sé tutto il resto. La politica che non cede ai bisogni, all’urgenza della realtà, al richiamo prepotente della natura e allo scatenarsi delle sue forze.
E invece sono qui, sprofondata nella mia poltroncina, che rifletto di spettatori e visione. Ed è qui che comprendo l’ulteriore qualità di questo strano esperimento in realtà aumentata, che a un primo sguardo può sembrare quasi pretenzioso, che convince pochi. Quell’impotenza, quella frustrazione che percepivo all’inizio, aumentano a dismisura il potenziale di questa performance per come è stata percepita, live. Aumentano la voglia, il desiderio di partecipare a quello che avviene intorno, di stare lì, anche se nella stessa postazione. Lì con loro. Mi rendo conto che questa operazione non ha senso dal punto di vista dello spettacolo, della coreografia, ma ha perfettamente senso nel ragionare sul fare e sul fruire il teatro. E su quel fenomeno artificiale e tecnologico, che forse poi è lo stesso che sempre più media il nostro rapporto e la nostra percezione del fenomeno naturale. Il cerchio si chiude e io continuo a godermi questo strappo alla regola, questo invadere gli spazi degli altri andandomene in giro per lo spazio, saltando di qua e di là.
Capitolo 3, Mother Weather; capitol 4, The Possibilities of Burgeoning Individuality. Le possibilità della fiorente individualità. Appunto. Quella dei danzatori, adesso soli, lanciati nello spazio, che appaiono e scompaiono nelle loro tuniche rosso fuoco. La mia, che saltello per questo spazio virtuale senza che nessuno possa accorgersene, senza che nessuno possa riprendermi. Capitolo 5, A Connection of Disconnections. Disconnessione, lo spettacolo è finito. Mi tolgo il cursore, mi adatto nuovamente alla luce, allo spazio – quello vero -, al corpo che mi è mancato tanto a Singapore. Sono rimasta sola. All’inizio avevo percepito l’uscita di qualche spettatore – qualcuno che non riusciva a regolare il cursore, per cui il volume era troppo alto, che si era stancato. Ma non mi ero accorta che nel frattempo fossero usciti tutti. Mi alzo, riconsegno il mio cursore. La Maschera mi porge una boccetta rossa: una boccetta di profumo, un omaggio da parte del direttore della T.H.E. Dance Company. È la stessa fragranza che ho sentito a un certo punto. Penso a quel direttore, che fa arrivare le boccette di profumo da Singapore, con il quale mi piacerebbe fare due chiacchiere poco dopo, magari a cena. Ci vuole un po’ per riadattarsi, del resto ho tenuto il visore tutto il tempo. Controllo l’orologio. È passata circa un’ora e mezza.