Ora tocca a noi. Giovani attori nascono (e crescono)
di Francesca De Sanctis
Corpi, voci, parole.
E poi quelle magliette impregnate di sudore, il respiro, il rumore dei passi nello spazio scenico a pochi metri da noi. Avviene tutto così vicino, davanti ai nostri occhi, con attori in carne ed ossa.
Dovrebbe essere una cosa normale, invece, ci si sente quasi disorientati, tanto che per qualche attimo, istintivamente, verrebbe voglia di indietreggiare. Ma dura solo pochi istanti, poi ci si lascia travolgere e immergere come si faceva una volta, prima che questa pandemia ci sottraesse – fra le altre cose – il nostro diritto alla bellezza.
La bellezza dell’incontro, la bellezza della condivisione, la bellezza del teatro dal vivo. Come eravamo abituati a vederlo, come deve essere. L’estate, per fortuna, ci sta regalando l’emozione di tornare in sala per lasciarsi contaminare dalla creatività delle compagnie che hanno continuato a lavorare pur nell’isolamento, ma senza mai fermarsi, nonostante la chiusura al pubblico degli spazi. Compagnie storiche, giovani formazioni, artisti italiani, performer internazionali si sono incontrati e si sono avvicendati nei giorni scorsi sui vari palcoscenici diffusi del festival Inequilibrio, che fra Rosignano Marittimo e il Castello Pasquini di Castiglioncello ha aperto i suoi spazi ai nuovi linguaggi, al confronto, alle alchimie previste o impreviste. Che avvengono, prima ancora che in teatro, in quel luogo diventato una specie di “piazza”, la Limonaia, dove artisti di ogni età si ritrovano attorno ai tavoli, per tornare alla vita, ai racconti, alle chiacchierate con i direttori artistici, Angela Fumarola e Fabio Masi, al confronto con i colleghi, alla conoscenza anche di artisti più giovani, che possono rivelarsi una vera sorpresa.
È stata una bella scoperta, per esempio, assistere all’anteprima de La gloria, scritto da Fabrizio Sinisi e interpretato da Alessandro Bay Rossi, Dario Caccuri, Marina Occhionero, con la regia del giovane marchigiano Mario Scandale (classe 1985). Presentato da La Corte Ospitale e vincitore del bando di produzione Forever Young per under 35 (con Armunia in giuria), La gloria è uno spettacolo decisamente politico, che da un lato scava nella memoria della nostra cultura, quella europea, interrogandosi soprattutto su ciò che alimenta comportamenti pericolosi ed estremi, ieri come oggi, e dall’altro indaga su quel confine sottilissimo che separa un rivoluzionario da un dittatore chiedendosi cosa spinge la psiche giovanile a desiderare il potere a tutti i costi. La storia è più o meno questa: il giovane Adolf Hitler ama dipingere e nel 1907 si trasferisce da Linz a Vienna per iscriversi all’Accademia delle Belle Arti, ma viene respinto per ben due volte, al contrario del suo amico musicista, August Kubizek, che supera l’esame di ammissione al Conservatorio. Incapace di ammettere la propria mediocrità, però, Adolf non fa che mentire ad August, fino alla scoperta della verità e quindi alla rottura di ogni rapporto fra i due. Da quel momento Hitler, per tre anni, vivrà da senzatetto nelle periferie di Vienna e con lo scoppio della prima guerra mondiale si arruolerà nell’esercito, a Monaco, dando così inizio al suo disastroso percorso politico.
Che Fabrizio Sinisi fosse un apprezzato drammaturgo non è una novità (appena ventitreenne è diventato dramaturg stabile della compagnia Lombardo-Tiezzi). Il testo, dunque, funziona. Chiaro, diretto, interessante, poetico. Ma funziona anche la messinscena, scarna e semplice, che mette in risalto la parola degli attori – tutti perfettamente calati nei ruoli, molto azzeccata soprattutto la scelta di far interpretare Hitler ad Alessandro Bay Rossi – drammaturgicamente arricchita dai montaggi video di Leo Merati. Da un gioco metateatrale che investe il pubblico stesso, prende avvio il dialogo fra i due amici che rivela, mano a mano che procede, tutta la tragica follia del futuro dittatore, all’inizio innescata dall’arrivo dell’amica di August, Stephanie, ma comunque inspiegabile nonostante sia così evidente. Tanto che la domanda, ancora aperta, da porsi è: cosa c’è all’origine della nascita di una dittatura? E cosa spinge i giovani europei – aggiungiamo – a subire il fascino di un megalomane? Ma i toni tragici si alternano a quelli più lievi, tanto che gli attori sembrano quasi divertirsi a mettere in crisi lo spettatore. Che esce dalla sala pieno di dubbi, forse, ma sicuramente con una storia in più da raccontare e con tanti spunti su cui riflettere.
Interessante che sia una giovane formazione (al loro esordio come trio, il Crepuscolo) a scegliere di raccontare un pezzo di vita poco conosciuto di Hitler, figura con la quale, evidentemente, non riusciamo ancora a chiudere tutti i conti. Come dimostra un altro bellissimo spettacolo visto di recente a Teatri di vita di Bologna: Il mio amico Adolf Hitler di Yukio Mishima, regia di Andrea Adriatico (con Antonio Anzilotti De Nitto, Francesco Baldi, Giovanni Cordì, Gianluca Eria). Anche qui c’è un Hitler insolito, ma spietato e accecato dalla sete di potere. Tre atti con tre ambientazioni diverse (è stata ricostruita perfino una vera piscina in cui gli attori nuotano, lottano, recitano) che preparano lo spettatore ad assistere all’ascesa al potere di un uomo pronto a tutto, perfino a pianificare la Notte dei lunghi coltelli mentre finge di dialogare con il delfino Ernst Röhm, il politico Gregor Strasser e l’industriale Gustav Krupp. Ma alla fine, Hitler perderà il suo vigore cedendo al compromesso. Nel frattempo, i rimandi ai nostri giorni, senza necessariamente fare citazioni esplicite, vengono a galla naturalmente, come per La gloria o per Oblomov show degli Oyes, altra giovane compagnia che da qualche anno è ospite di Armunia. La formazione milanese diretta da Stefano Cordella, nata esattamente dieci anni fa dall’incontro degli allievi di classi diverse dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, stavolta ci presenta la riscrittura del romanzo russo ottocentesco: Oblomov di Ivan Goncaron. Dario Merlini immagina un Oblomov regista quarantenne, apatico, che se ne sta chiuso in casa con il fratello Zachar, lontano da qualunque passione, stimolo, ambizione, fino all’arrivo dell’amico d’infanzia Stolz, che gli presenterà Olga, di cui si innamora. Come non pensare alla pandemia, che ci ha resi tutti un po’ apatici, isolandoci dal mondo? Il punto è che non è semplice ricominciare, sembrano volerci dire gli attori. L’immobilità ci ha cambiati. Non è detto, dunque, che l’amore – in questo caso l’incontro con Olga – possa aiutarci a tornare alla normalità.
Di sicuro hanno voglia di tornare alla normalità gli attori giovanissimi che abbiamo visto in scena in questi giorni al festival Inequilibrio. La loro normalità, in questo caso, significa farsi avanti, prendere la parola, mettersi alla prova, cogliendo anche gli insegnamenti di artisti che calcano le scene già da tempo per restituirli al pubblico, come hanno fatto Gabriele Brunelli, che ha aperto lo spettacolo decennale di Tindaro Granata, Antropolaroid, e Francesca Innocenti, che ha condiviso il palcoscenico con Antonella Questa, per la prima volta non più sola sul palco, in Affari di famiglia, storia di un’impresa familiare con qualche vago richiamo a Cechov.
In entrambi i casi è come se avessimo assistito ad una sorta di passaggio di consegne, fondamentale in un periodo come il nostro in cui si dà sempre meno peso alla memoria storica, agli insegnamenti dei padri e delle madri, ai saperi da tramandare. Ecco perché è stato particolarmente interessante testare la formula individuata da Tindaro Granata, che dopo aver tenuto un laboratorio sul “cunto” ha scelto di andare in scena con un giovane attore diverso per ogni regione d’Italia in cui Antropolaroid viene replicato in questo anno di festeggiamenti. Dunque, a Castiglioncello, abbiamo incontrato il giovane attore toscano Gabriele Brunelli, nato a San Miniato e cresciuto a Fucecchio, allievo della scuola del Piccolo Teatro di Milano. Alla fine ha creato anche lui il suo “antropolaroid”, raccontandoci con una certa scioltezza e ironia la sua storia fatta di gente toscana, di avi e di radici. Si intitola, non a caso, Ironia della sorte, il monologo in cui si presenta come un uomo-bambino che definisce la sua identità ricostruendo le storie di Tullio, che si arruola e combatte per l’Unità d’Italia, o di Gino, che perde la gamba durante la prima guerra mondiale, fino al bisnonno detto il Biondo. Venti minuti per cominciare a conoscere e apprezzare un artista che ha messo a frutto gli insegnamenti appresi da un talentuoso attore ancora giovane ma con abbastanza anni di esperienza alle spalle da poter “tradamandare” quella tecnica del “cunto” che è diventata una po’ la sua cifra stilistica, e grazie alla quale si è fatto amare e apprezzare. Rivedere in scena Tindaro Granata con questo lavoro storico, ti riconcilia quasi con il mondo, tale è la sua bellezza.
Per questo, quando i narratori della nostra scena contemporanea trovano il coraggio di affrontare questo passaggio di consegne agli attori più giovani è sempre un atto di coraggio che gioverà senz’altro sia al pubblico che agli artisti. Perfino Oscar De Summa, nel suo nuovo lavoro visto in forma di studio a Epica Festival, Marta e Harvey, rinuncia addirittura ad andare in scena per lasciare spazio a Marina Occhionero, proprio lei, la Stephanie de La gloria. D’altra parte, c’è chi ha ben chiaro da tempo l’importanza del tramandare il sapere. Basterebbe citare la Non-scuola del Teatro delle Albe per spiegare come si fa teatro, giocando, proprio come fanno i bambini. E allora concludiamo questo nostro breve viaggio teatrale fra le giovani leve con le parole di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari: «Il teatro è una palestra di umanità selvatica e ribaltata, di eccessi e misura, dove si diventa quello che non si è».