Generosità, o la virtù del corpo danzante
di Enrico Piergiacomi
Uno dei grandi temi trasversali a Inequilibrio 2021 e di una complessità che rasenta l’impossibile è il corpo del danzatore o della danzatrice. Proprio per queste difficoltà, queste note andranno considerate come un’ipotesi di lavoro che senza dubbio resterà su molti aspetti alla superficie.
Stabiliamo prima una premessa. Chiamiamo “virtù” nel significato più generale la condizione/disposizione acquisita da un oggetto, un vivente o una persona che ha raggiunto l’assoluta perfezione e l’eccellenza nelle prestazioni che gli/le competono. Affermiamo, ad esempio, che la virtù della pattumiera consiste nel contenere quanti più rifiuti possibili, quella del cavallo da corsa nella velocità di arrivare primo o in buona posizione al traguardo, quella dell’uomo coraggioso e temperante nella sopportazione della paure, unita al controllo dell’assillo dei desideri. Molte di queste capacità di norma non sono che l’attualizzazione di quello che il soggetto è capace di fare per dotazione naturale. Non diremmo virtuoso l’uomo temperante, se la sua natura non fosse in grado di provare desideri (il che esclude che la pietra – che non desidera nulla – abbia temperanza) e l’abilità interiore di controllarli (per questo non diciamo che gli animali – incapaci di esercitare un controllo razionale – sappiano desiderare virtuosamente). Spostando la questione al corpo del danzatore o della danzatrice, dobbiamo allora chiederci: quale è la virtù che lo contraddistingue?
Dire che si tratti della bellezza, della forza, della velocità, della grazia, della coordinazione del gesto in un ritmo non è sufficiente. Anche un cavallo da corsa può manifestare tutti questi caratteri, e tuttavia non diremmo che danza, se non per analogia – proiettiamo su di esso, infatti, un moto danzante che per qualche ragione assomiglia ai movimenti che esegue un danzatore o una danzatrice. Essi sono allora forse solo mezzi attraverso cui il corpo potrebbe esprimere la sua virtù danzante, ma non necessariamente. Alcuni spettacoli di Inequilibrio hanno del resto dimostrato che un corpo umano può essere usato in modo volutamente sgraziato e nondimeno generare una danza comica, dunque sapiente e godibile, come accade in A corpo libero Special di Silvia Gribaudi.
A livello più astratto, va notato che il movimento del corpo danzante può anche essere compiuto male (= esser brutto), con una lentezza prossima all’immobilità, scoordinato dal ritmo da cui si sta lasciando attraversare. La sua virtù va dunque rintracciata altrove: in quel qualcosa che fa sì che il gesto coreografico sia ora bello e ora orribile, ora coordinato e ora dissonante, ora veloce e ora lento, e così via fino a esaurire tutti gli opposti possibili.
Banalmente, la differenza tra il corpo di un cavallo in corsa e quello di un danzatore / una danzatrice è che il secondo è espressivo, il primo no. Ma anche la capacità di espressione è un punto di arrivo troppo semplice. Il corpo di un violoncellista che ora collabora ora è in lotta con il suo strumento per liberare la musica nell’aria sta esprimendo una tensione espressiva, seppure in modo inconsapevole o involontario. Lo stesso discorso può valere per la sua capacità di esporsi, di mettersi per così dire a nudo e mostrare la sua potenza come le sue fragilità davanti a un pubblico. Questo è il caso del corpo dell’attore o dell’attrice, la cui esposizione sincera di ritmi, gesti, azioni lo rende attraente all’udito e allo sguardo esterno. Ancora una volta, queste due caratteristiche sono forse concomitanti della virtù, ma non coincidono con la virtù.
La mia ipotesi è che c’è una proprietà che potrebbe sposarsi bene con il corpo del danzatore o della danzatrice ed è quello di essere “generoso”. Con “generosità”, intendo riferirmi a una qualità molto precisa, che normalmente ha a che fare con il carattere o con la relazione interpersonale, ma potrebbe essere esteso benissimo – con la dovuta cautela – alla dimensione corporea. Una persona generosa è colui o colei che dà più di quello che ottiene, che si priva volontariamente di un proprio bene perché siano altri a beneficiarne. Il suo dono spesso culmina persino nello spreco, o nell’auto-lesionismo. Vi sono casi di filantropi che danno più di quello che è necessario allo stesso individuo o gruppo beneficato, o che si sono distrutti il patrimonio e sono caduti pertanto nella povertà estrema. Ma non è solo questione di entità del gesto benefico, perché un’azione generosa potrebbe essere concentrata in un atto apparentemente minuscolo. Una madre va a lavorare dal lunedì al sabato. Dice a sua figlia di tre anni che deve farlo perché la famiglia possa mangiare. La piccola sta un momento in silenzio, fa un cenno alla madre e la porta nella sua stanza, dove le dona il bene materiale che per quell’età è molto prezioso, quasi sacrale: una caramella. Vendendola, dice nella sua ingenuità, la madre potrà evitare di andare al lavoro e trascorrerà il tempo felice in famiglia. La materia del gesto è minima, la forma e la generosità incommensurabili. Per l’universo, la caramella e la bambina sono nulla – ombre che buchi neri e galassie oscurano per dimensione o potenza. Per la bambina, tutto l’universo con i suoi infiniti mondi si addensa in una caramella.
Vorrei così proporre che la virtù del corpo danzante è appunto la generosità. In apparenza, i suoi gesti sono di una semplicità disarmante, forse persino banali, perché consistono in una successione ritmica più o meno organica dei micro- e macro-movimenti che ciascuno di noi fa nella vita: per elencarne alcuni, camminare, correre, saltare, abbracciare, creare e sciogliere tensioni, oscillare, strisciare, sdraiarsi a terra, perdere l’equilibrio, cadere. La virtù del corpo danzante potrebbe coincidere, invece, con la capacità di usare completamente le proprie energie per attualizzare tutte le risorse dinamiche ed espressive che può avere un singolo arto, o il complesso somatico, e che nella vita quotidiana restano latenti. Ciascuno di questi micro- e macro-movimenti è affinato a tal punto che, nel guardarlo, lo spettatore accorto ed estetico si accorge con dolore che non ha mai camminato, saltato, abbracciato, ecc., ma ha avuto solo l’apparenza di farlo. Il suo vero “sé” corporeo è rimasto immobile, addormentato, insondato, e deve ancora imparare a gattonare. Poiché il corpo del danzatore profonde così tante energie senza ricavarne nulla in cambio e nella flebile speranza di risvegliare gli altri corpi ottusi/sprofondati nel sonno, non saprei qualificarlo se non appunto come generoso. Quanto più spreca le sue risorse dinamiche ed energetiche nel tentare di realizzare una simile utopia, tanto più la corporeità si mostra virtuosa.
Plotino argomentava che la vera anima non è mai discesa sulla terra ed è rimasta incontaminata oltre il cielo.
Il danzatore dimostra che il vero corpo non è mai affiorato alla coscienza e ancora dorme in profondità, nei recessi più tenebrosi della materia.
Da ciò segue anche che perché un gesto coreografico possa avere effetti opposti, dall’estrema bruttezza alla bellezza più amara, dalla graziosità alla goffaggine. Il corpo del danzatore o della danzatrice ricorre a ogni fibra del suo essere per liberare tutti i movimenti possibili e persino contraddittori. I suoi gesti sono per natura neutri, perché possono assumere qualsiasi forma e concatenazione ritmica. Se allora dalla prospettiva estetica ed etica la virtù del corpo danzante potrebbe consistere nella generosità, dal punto di vista ontologico e fisico esso risiede nella neutralità.
Si potrebbe menzionare una moltitudine di simili gesti generosi che hanno avuto luogo al festival Inequilibrio. Ci sono le smorfie de Lo sbernecchio del Bubbù di Giuseppe Muscarello, che nella loro apparente ingenuità trascinano lo spettatore in un vortice energetico che mette in subbuglio le sue resistenze e i giudizi che lo trattengono in una compostezza artificiale, i quali a loro volta impediscono di vedere quanto il corpo sia innocente – prova ne sono i bambini che hanno assistito alla danza con tale partecipazione e senza filtri, fino ad arrivare a ridosso del palco.
O al contrario, ci sono state le sospensioni del movimento di Abstract di Silvia Rampelli, dove più che al gesto coreografico si assiste alla promessa della danza. Il buio della scena è periodicamente illuminato per mostrare corpi che accennano a posture, movimenti, azioni, in altri termini frammenti visibili di un intero che è lasciato volutamente all’oscuro. Avviene dunque l’astrazione in un duplice senso: da un lato, si astrae il gesto da ogni contesto di significazione e lo si espone nella sua nuda datità alla visione, dall’altro – similmente a ciò che accade quando si sottopone a una rivista scientifica l’abstract di un saggio ancora da scrivere – si sintetizza il nocciolo di una coreografia o di una riflessione più ampia che sarà articolata in futuro, o forse mai.
Sembra da tale breve sintesi che la danza di Muscarello e quella di Rampelli condividano solo il nome, dunque che siano agli antipodi. Credo, in realtà, che esse siano esperimenti artistici opposti che arrivano allo stesso risultato: l’attivazione di un principio di irrealtà. Ci si sorprende sia con Lo sbernecchio del Bubbù che con Abstract di avere un corpo, di abitarlo come il padrone di un castello imponente di cui però conosce solo lo sgabuzzino. Il corporeo si rivela essere per natura misterioso. Ci si chiede pertanto che cosa dovremmo fare di un corpo, qualora si decidesse di andare oltre le consuete occupazioni di nutrirlo, lavarlo, gettarlo nel sonno, tenerlo in salute, abbandonarlo al coito. È una ricchezza che nemmeno il più saggio tra gli esseri umani ha ben chiaro come spenderla al meglio.
Certamente si potrebbe obiettare che non esiste alcuna generosità in sé e nello specifico nel corpo di un danzatore o di una danzatrice, perché la legge a cui ogni vivente è sottomesso sin dalla nascita è l’egoismo. Se non altro, l’atto benefico di infondere tutte le proprie energie per sperare di risvegliare la corporeità altrui potrebbe ambire a ricavare un piacere privato. Nel caso della bambina sopra descritta, qualche anima malvagia e perversa potrebbe pensare che sia il gretto bisogno di trattenere la madre in casa che motiva la concentrazione dell’universo in una caramella. L’obiezione può essere però essere risolta rispondendo che, negli atti di generosità, il piacere egoistico ha un ruolo di gran lunga minore rispetto alla ricerca del benessere altrui. La bambina proverebbe più piacere a mangiare la caramella che a regalarla, il danzatore o danzatrice godrebbe di più nell’usare il corpo in attività più redditizie (potrebbe benissimo lavorare come un atleta, o da personal trainer) che a donare le sue energie sul piano simbolico e poetico della scena. Se è innegabile che l’egoismo esiste persino nei santi, non per questo va concluso che tutti gli atti sono egoistici allo stesso grado. Almeno le azioni di danza comportano una sproporzione tra l’utile personale (che è minimo) e il beneficio altrui (che è invece sommo e gratuito).
Vale la pena chiudere con una precisazione, ossia che la virtù della generosità e per estensione del generoso corpo danzante è anomala. Normalmente, un oggetto, un vivente, una persona che opera virtuosamente ispira la sua azione al criterio del dosaggio delle forze. L’individuo saggio sceglie lo stile di vita equilibrato, quello temperante seleziona i desideri, quello coraggioso sopporta con compostezza le circostanze, quello giusto dà agli altri e a se stesso solo ciò che è dovuto. La generosità – con i suoi sprechi, la sua gratuità, il suo dispendio energetico con scarso o minimo ritorno personale – è di contro una disposizione debordante, una sorta di devianza dal buon senso che nel corpo del danzatore e della danzatrice si mostra in modo lampante. La virtù della danza pare così paradossalmente tramutarsi nel vizio, o meglio in ciò che sarebbe di norma contrario all’attività virtuosa: non nell’ordine ma nel caos, non nel controllo ma nel disorientamento.