Alessandra Cristiani in dialogo con Auguste Rodin per scoprire attraverso lo sguardo “il genio” del corpo
Intervista di Elena Pancioli
La performer Alessandra Cristiani è in residenza ad Armunia, in attesa di tornare in estate, al festival Inequilibrio dove sarà interprete con la compagnia Habillé D’eau di Silvia Rampelli di ABSTRACT – UN ATTO CONCRETO. Durante la Residenza Artistica ha mosso i primi passi del nuovo lavoro Naturans – da August Rodin, terza parte della trilogia La questione del corpo e l’arte di E. Schile, F. Bacon, A. Rodin. Alessandra Cristiani con grande sensibilità artistica ci ha accompagnato nella sua visione performativa dell’arte, ci ha raccontato dei suoi maestri, dei suoi incontri artistici, del suo rapporto con la scena e le arti della visione. Intervistandola abbiamo affrontato questioni estetiche ed etiche intorno al concetto di corpo.
Il tuo lavoro offre molti spinti di riflessione estetica: L’indagine sulla “questione del corpo” mi portano a chiederti cos’è il corpo, il corpo-performativo e come si rapporta alle arti visive, al paradigma sguardo-mente- istante?
Amo lavorare nel corpo, dentro al corpo, sviscerarlo da dentro, è un percorso e un’attitudine che ho da sempre e che mi ha portata ad appassionarmi sempre di più, anche con dei lati ossessivi, malgrado me. È il “modo” con il quale io mi accendo in sala, in cui trovo la ragione di essere con me stessa, un desiderio che va sempre rinnovato, un’indagine che mi porta a studiare altri artisti, sempre con la volontà di intercettare me stessa, non avendo limiti e misure nella corporeità che mi sostanzia. Quindi la “questione del corpo” parte da qui, un affondo infinito sulla percezione corporea, sulla sensorialità del movimento. Per me il corpo è una radice fondamentale, è una matrice, un grembo, un nido in cui stare, un nucleo fondante. Per cui la danza è enucleare, occorre prendere da questo nucleo e dilagarlo nello spazio. Infatti, nel mio lavoro inizio sempre da una percezione interna, cioè da uno stato del corpo che mi dà stupore. Inoltre io vengo da una formazione nella filosofia del Buto (antica disciplina giapponese) e le mie guide mi hanno fatta “sprofondare” in questa questione del corpo veicolata dallo sguardo, il guardare e l’essere guardati.
Naturans – da August Rodin è l’ultima tappa della trilogia La questione del corpo e l’arte in Egon Schile, Francis Bacon, August Rodin, cosa ti ha avvicinata all’opera di Rodin, scultore parigino vissuto tra Otto e Novecento, e come confluisce nella tua poetica di performer e danzatrice?
Di Rodin sto indagando il lavoro di scultore e il suo rapporto con il disegno nella sua ultima produzione. Io amo moltissimo il disegno, amo le fonti visive, i manufatti, gli oggetti artigianalmente prodotti, sono per me una proiezione mentale e sensoriale che si lega all’idea di artigianato corporeo, manuale e alle questioni estetiche che mi danno la possibilità di rilanciare poi sulle questioni etiche. Ciò che ho ricevuto da August Rodin, rispetto a Egon Schile o Francis Bacon che hanno rinnovato la percezione del quadro, è stato riscoprire l’importanza del disegno (in questo caso ad acquerello) e la questione del guardare il corpo nella sua emancipazione sconfinata. Una questione che ha rinnovato il rapporto tra disegnatore e modello. Rodin ha avuto un’intuizione grandissima nell’intercettare un canale nel processo di creazione che si rinnova, che ancora oggi ha una sua eco. Lui richiedeva ai suoi modelli una condizione: che fossero nudi.
Per Rodin la nudità era un concetto legato allo sguardo: guardare il corpo nudo è la questione che mi ha avvicinato a lui. La nudità di un corpo che anche nel disegno erotico non fa trasparire la morbosità, ma il voler conoscere fino a che punto comunica il corpo, attraverso l’elemento organico. I suoi occhi erano come delle bocche, voleva cibarsi del movimento nello spazio: le sue sculture sono importanti soprattutto per i vuoti che emanavano e per la consistenza materica. Ricollegandomi al mio lavoro posso dire che il nudo è diventato una mia cifra stilistica, anche malgrado me, mi dà un senso di pudore, di complicità con me stessa ed è un modo di offrire uno sguardo delicato della questione corporea, il nudo corporeo è il segno scenico che chiama in causa la reciprocità dello sguardo, mette in allarme.
È interessante come in un catalogo che tratta di questi ultimi disegni Il museo segreto di Rodin (come lui lo chiamava) c’è scritto che lui intercettava dalle modelle il genio del corpo, cioè il movimento naturale e la consapevolezza dell’abitare il proprio corpo (abitarsi da dentro e guardarsi da fuori), per Rodin le posizioni erano ricolme di spirito. Tutto questo mi crea un vettore di ricerca, così, quando sono in sala e mi oriento, devo lavorare sul trovare il genio del corpo a me sconosciuto, mi sto quindi esercitando ad abitare “lo stato” del corpo. Per questo è molto importante, perché molto spesso, e in particolare nella dimensione del video, non sempre viene intercettato il lato spirituale che voglio trasmettere.
I tre artisti ai quali ti sei ispirata hanno creato con le loro opere, personalità e teorie artistiche delle crisi estetiche. Cosa accomuna i tre artisti in questa trilogia?
Loro hanno messo in crisi il concetto stesso di corpo, non solo umano, nudo, ma anche la struttura-corpo delle cose sensibili del mondo: i paesaggi, le case, la natura.
L’immagine mette in crisi il gusto e il piacere, e nella mia performatività vengo attratta da questo. Sono personalità che hanno avuto il coraggio di essere incredibilmente sé stesse fino in fondo, rapite dalla loro passione, e questo è per me commovente e stimola a chiedere la medesima cosa anche a me stessa, rilanciare la mia posizione all’interno del panorama delle arti performative.
Mi pongo un enigma da risolvere in scena. Loro mi hanno un po’ spostato, ed è anche quello che cercavo, uscire dal percorso, li ho convocati come un aiuto, sicuramente rintracciando una comunanza. Rodin, in particolare, pone la questione dell’erotismo del corpo seduttivo, che prende però un’oggettività cristallina. Cos’è erotico? Più che il corpo lo sguardo, il bisogno di penetrarlo per percepirlo.
In relazione al discorso precedente ti chiedo quale sia la tua posizione nel panorama artistico performativo.
Io ho un’utopia. Non ho seguito un percorso canonico, non sono una danzatrice pura. Io sono nata con il teatro fisico e piano piano mi sono addentrata nel teatro performativo. Il Buto mi ha dato il coraggio di espormi in questo campo ibrido tra danza e arti visive, e da qui la mia intercettazione della componente corporea come matrice. La crisi è la mia utopia, quando mi pongo in scena mi metto nella condizione di sfidare qualcosa, diventa sempre per me un coltello l’entrare in scena, perché devo risolvere per me quell’approccio performativo alla danza. Il mio desiderio è quello di far percepire all’atro, anche se sono ferma, la mia percezione del corpo e credo che Rodin ci sia riuscito: quando ti trovi davanti a una sua scultura senti quasi di poterla masticare, se le sculture avessero un sapore ne sentiresti il gusto. È un rovesciamento dell’interno, della consistenza interna sulla materia esterna.
La trilogia si interfaccia con le pratiche orientali come la filosofia del Buto Blanc o l’espressività Haiku, come si rapportano al tuo lavoro performativo?
Sono molto legata a delle individualità artistiche che per me sono dei maestri: Masaki Iwana, Akira Kasai, Yoko Muronoi. Mi piace dirlo, perché questa trilogia è stata un pretesto per mettere in campo delle questioni-esercizio incontrate nei loro laboratori. Esercizi che hanno una possibilità performativa, esercizi che sono stati delle sollecitazioni a delle percezioni del corpo intorno alle quali mi sono sempre interrogata. Lo studio diventa in scena performatività con l’intento radicale di non risparmiarmi, come hanno fatto loro. Mi sono data nuovamente una disciplina. All’interno di questi studi ci sono gli Haiku, dei componimenti poetici-letterari. Mi affascina la loro essenza, li ho studiati con Masaki Iwana (Buto bianco), che, in relazione a loro e a delle immagini di danza ci spingeva a rinnovarci sempre. Gli Haiku per lui erano un’immagine di danza ancora più criptica, ti portava alla crisi in quanto spinta al miglioramento e rinnovamento delle certezze. Gli Haiku portano alla ricerca intuitiva, profonda, mettono a soqquadro l’approccio interpretativo, ti mettono a confronto con la tua sensorialità e percezione delle cose.
Un altro tipo di percezione: l’stinto, l’intuizione, il non detto, l’invisibile, l’ombra erano questioni per Masaki Iwana legate alle questioni del corpo e io mi porto dietro tutto questo.
Ritornando alla prima domanda, ti dico che anche questa per me la “questione del corpo”, è diventata un gusto, la percezione della presenza oscura del corpo. Così gli Haiku mi servono da specchio metodologico per l’interpretazione dei disegni, delle pitture e delle sculture. L’immagine per me è come un Haiku, uno strumento di osservazione.