18 Febbraio 2021

Nel Teatro vuoto. Un dialogo

di Rita Frongia e Azzurra D'Agostino

Questo testo nasce dopo una settimana di residenza ad Armunia in cui Rita Frongia (drammaturga) e Azzurra D’Agostino (poetessa) si sono trovate nel gennaio 2021 per condividere un tempo di riflessione intorno alle questioni della scena, della poesia, dell’arte.

Rita:
Azzurra mi scrive una lettera dove racconta di un campo coperto di brina, quasi azzurro. Dice che osserva una foglia coperta di cristalli ma che sotto è verde e lei la interroga: ma tu ce la fai a vivere così?
Perché Azzurra ha paura di morire non di freddo, ma d’immobilità, così le viene in soccorso una parola, Hesuchia, che vuol dire ‘riposo’, la quarta stazione, in cui gli alberi si spogliano e riposano sino ai primi fremiti di primavera. L’inverno non è morte, ma riposo. I nostri maestri vegetali, nostri umili maestri chiusi nel ghiaccio a riposare.

Rispondo alla lettera di Azzurra con la parola Gluggaveður che in islandese vuol dire quando fuori fa troppo freddo per uscire e – al riparo- si osserva il paesaggio dal vetro della finestra. Le chiedo se desidera venire con me in una casa degli artisti (Armunia), per far tesoro dell’inverno, interrogando le nostre arti.

Azzurra:
Ci siamo trovate di persona in uno spazio pensato per accogliere chi nella vita si occupa di arte. Il bisogno di trovarsi ‘dal vivo’ si era fatto ancora più forte ultimamente perché l’impossibilità, il divieto di incontrarsi, guardarsi negli occhi, ci ha fatto sentire proprio fisicamente quanto questo sia importante. La qualità diversa del tempo passato a parlarsi, confrontarsi. Sostrato indispensabile per creare le fondamenta di un pensiero.

R.
È la prima volta in vita mia che posso rallentare il processo di creazione, che non devo essere operosa in tempi rapidi. Questo tempo di mancanze mi sta viziando. Questo tempo di mancanze mi ha concesso tempo.

A.
Sono arrivata qui mentre lavoro contemporaneamente a un romanzo, un poema con immagini fotografiche, un progetto performativo e un albo per bambini senza parole (silent book). Ognuno di questi mondi ha esigenze diverse in termini tecnici (ad esempio, il silent ha molto a che fare con la drammaturgia, mentre il poema dialoga con la visione nel teatro). Non sapevo bene a cosa mi sarei dedicata e non avevo aspettative, pensavo solo di partire tenendo presente una riflessione che Rita mi aveva esposto in merito a una questione specifica del suo lavoro in questo momento, una questione teorica inerente la scena.
Prima di entrare dentro i nodi concreti di queste opere a cui mi sto dedicando, sentivo che avevo bisogno di dedicarmi ad altro, uscire dai miei meccanismi. Quando i problemi si fanno ossessivi e stagnanti, non trovi soluzione perché non riesci a spostarti da quello che conosci. Talvolta anche perché non ti dai il tempo di fermarti a pensare in senso più largo, da una prospettiva diversa.
Per questa ragione, ho portato con me una valigia di libri, volevo rileggere dei passaggi, commentarli con Rita, metterli in comune.

Ci siamo date una domanda, il primo giorno: come costruire un processo che favorisca lo stupore, l’inatteso?

R.
Azzurra propone un gioco, quindi è una cosa seria.
Mette delle carte in tavola. Sceglie quelle delle ‘Antenate Tessitrici’ che parlano in forma di oracolo. Saranno i nostri spiriti guida. Prendi una carta, mi dice.
L’azione ha generato un silenzio. Solenni nel gioco, ci muoviamo verso l’illusione.
Pesco una carta dal mazzo coperto che Azzurra ha steso sul tavolo.
Raffigura una donna ossuta e vecchia di mille anni, ha i seni nudi e cavi, alle spalle ha una luna piena dello stesso colore della sua pelle, il cielo è nero, il vuoto intorno. La donna tiene in mano una mandibola e appese ai fianchi ha delle ossa, sembrano flauti, se battessero fra loro suonerebbero come le cose vuote.
È l’Antenata della casa della terra fredda, conosciuta come il Gufo della morte, abita in un luogo di vasi e ombre, ci dice tante cose ma a noi rimane impresso questo:
è il momento di curare e di riparare, di cucire i lembi strappati, di ricamare le cose rotte, di volgere le nostre menti alle terre silenziose, ai sottofondi, alle parole più profonde.

Agire come mai abbiamo saputo, nel pieno dondolare delle cose.

Dice che grazie ai gufi della morte dobbiamo agire come mai abbiamo saputo e che noi possiamo dire cosa vogliamo e dice anche che noi dobbiamo dire cosa vediamo.

E che faremo come possiamo.

La carta ha parlato. Si è creato un altro tipo di silenzio.

(Quando penso che il teatro si occupa principalmente di far cadere/accadere i silenzi, mi sembra una roba da matti. Una cosa dei matti per i matti. C’è chi lavora la pietra, chi lavora le parole, chi i colori, chi le trame, noi teatranti lavoriamo l’attimo. Gli attimi.)

A.
Per poter agire come mai abbiamo saputo e fare accadere i silenzi, la prima cosa che occorre è fare il vuoto. Perché se arriva qualcosa ed è già tutto pieno, probabilmente quel qualcosa non si fermerà, non riuscirà a entrare. È molto probabile che quel qualcosa non lo vedremmo nemmeno, nel tutto-pieno, nel tutto esaurito. Forse, non arriverà proprio. Di questo abbiamo esperienza, perché accade sia nelle opere d’arte che nella vita quotidiana: il troppo è meno di qualcosa.

R.
È come dice la vecchia Antenata, bisogna essere nel pieno dondolare delle cose.
Nel caso delle prove in teatro, farsi alterare e travolgere dai fatti, dagli eventi della scena, da quel che accade lì, fra le persone attori. Quella è l’opera, l’idea è solo un primo gradino e come ogni gradino, è presto d’intralcio. È grazia quando le idee spariscono, quando i fat-ti non solo non rappresentano ma si sostituiscono alle idee. Quando l’opera ci contraddice.

A.
Qualunque fosse l’oggetto specifico di indagine di ciascuna di noi, dunque, il fatto di fare, accogliere, dare spazio al vuoto per favorire l’inatteso, si è rivelato centrale. Lo stupore, motore del mondo in quanto poesia del mondo, dell’essere umano in quanto opera. E se qualcosa di vero e importante (anche di piccolo, rimediabile e migliorabile, come una tra-ma, un format, un verso, diciamo un pezzo del lavoro che andrà a comporre l’opera finale) è arrivato, questo è perché il primo vuoto è stata l’occasione offertaci di prendere tempo vuoto. Entrare in un teatro vuoto per fare vuoto.
Per riempirlo d’altro – che non è il teatro (perché il teatro è tale solo con i corpi presenti) – ma che serve al teatro per accadere. Il pensiero, lo studio, la risata, un tempo differente che non si occupa di crisi di governo o pandemia (di quello tanto ci se ne occupa comunque e sempre, nostro malgrado).

R.
Ci soffermiamo allora su alcune cose che sembrano chiare, perché nulla è solo come ap-pare. Neanche un fiore è solo un fiore. L’oracolo dice che noi possiamo dire cosa vogliamo, anzi che noi lo dobbiamo dire.

Ma che cosa vogliamo? Lo sappiamo? Crediamo di saperlo?

Azzurra mi ricorda un film famoso dove c’è una stanza che realizza i desideri più profondi, naturalmente è molto pericoloso arrivarci e ci sono degli accompagnatori specializzati per questi viaggi. Uno di questi, detto il Porcospino, decide di entrare nella stanza per realiz-zare il proprio desiderio: resuscitare il fratello morto. Quando il Porcospino esce dalla stanza, si accorge di essere diventato un uomo molto ricco. Scopre così che aveva più a cuore il denaro che la vita del fratello, e si suicida. Parliamo a lungo di morte, non dei morti, non della morte che porta via, ma della morte degli attimi e ci chiediamo del nostro dialogo con la morte.

Azzurra scrive:
A un certo punto bisogna smettere di sprofondare.
A un certo punto stare male non serve più a niente, se quello stare male non ci ha inse-gnato nulla. Cosa abbiamo imparato dal dialogo non con i morti ma con la morte? Cosa ci ha sussurrato nell’orecchio la morte? L’abbiamo ascoltata? Cosa ci ha detto. Cosa vediamo dopo che il fango ci ha coperto gli occhi e le ossa si sono disfatte e il grem-bo ha versato tutto quello che poteva? Dobbiamo dire quello che vediamo. Se conosci i segreti della morte non sei lontano da quelli della vita. La morte non è l’opposto della vita. La vita si lascia dire per il suo contrario solamente? Si lascia vivere alla rovescia solamente?

Nasce un nuovo lungo silenzio.

A.
Stare fermi non significa affatto non stare andando da nessuna parte. Rispettare i tempi necessari per fare accadere le cose non è perdere tempo. L’inverno non ha ansie da pre-stazione, e non si dispera il ramo nel contare le foglie che ha perduto. Nell’inverno l’albero non teme di morire per sempre. Nell’inverno, l’albero si prepara.

R.
Ci siamo raccontate di una trama che comprende un biancospino, di come sia complesso distinguere un movimento da un’azione. Ci siamo accorte che il più delle volte la nostra presunta azione è solo un’idea, quando non solamente un’opinione. Un’azione – nell’arte e nella vita- è qualcosa che ne innesca altre e genera una trasformazione, visibile e non; può essere una cosa molto piccola. Ci chiedevamo se distruggere o no il biancospino, ma la vera domanda era un’altra: Chi lo deve distruggere? Chi, fra tutti i personaggi, verrebbe davvero trasformato da quest’azione?
L’azione non è dunque distruggere la pianta, ma cosa genera questa distruzione in chi la compie. Un’azione che diventa gesto. Abbiamo poi ragionato su come raccontare una storia in poche tavole disegnate, senza parole e senza rinunciare all’elemento narrativo del sogno.
Abbiamo riflettuto su un format radiofonico per capire se realmente è un format, quali sono gli elementi indispensabili e come si può raccontare in parole semplici.

A.
A chi parla l’arte?
Che cos’è un’opera d’arte e qual è il suo effetto?
Cosa occorre per favorire il processo che porta alla creazione di un’opera d’arte?

R.
Interroghiamo lo spirito guida che ha pescato Azzurra dal mazzo.

La sorte le ha riservato Lago, la donna che canta alla luna. Un volto che occupa quasi tutta la carta, occhi molto neri e diretti, una bocca morbida, di-sposta al sorriso. Trasmette la calma vigile dei saggi.

Qual è l’essenza della nostra magia più semplice?
Quando alziamo le mani verso la luna, la magia che è contenuta fra le braccia è sia vasta che molto piccola.
La magia semplice è nel quotidiano, nelle piccole cose.
Il sottile, l’invisibile, ciò che appare insignificante, compiono in noi silenziose trasformazioni.
Schegge di luce lunare nelle nostre menti.
Sentire la vita dell’albero e del lupo. I segreti a bassa voce, i sogni di mezzanotte, i sussurri.

A.
Chi nella vita fa quello che lo diverte, spostandolo dal suo sé più ordinario, ha un grande privilegio. E il privilegio comporta anche una responsabilità, in qualche modo: allargarlo a più quanti possibile, e fare qualcosa che tenda al meglio. Predisporsi a favorire una condi-zione che sia quella di – finalmente – dare vita a qualcosa che si rivolge a qualcun altro. Prendere in considerazione l’altro. Preparare il terreno per lo stupore dell’incontro.

R.
Questo pensiero è in linea con lo spirito del Lago. Ci sta dicendo di creare un canto sem-plice che parli agli uomini, chiede di farlo con calore, di abbracciare, di toccare i corpi. Chiede di generare caldo quando è notte e fa freddo. Chiede il canto delle cose piccole per fare grandi gli uomini. Chiede di far muovere una tazzina e di dare voce a una pietra.

A.
E dopo sei giorni intensissimi, giorni degni come anni, la parola che più ha risuonato è dunque: vuoto.

R.
Entrare nella stanza dove si realizzano i desideri ci trasforma, ci cambia. A volte i desideri sono cose semplici. Che cosa chiedo alla stanza dei desideri?

A.
Per gioco abbiamo cercato una risposta insieme, costruendo una poesia un verso per uno, dentro una grazia comune, attorno all’opera come vuoto* contenuto nei vasi di Maria Lai.
Mi è sembrato che questa poesia sia diventata l’epigrafe delle nostre giornate.

Ed eccoci qui riuniti nella grotta
senza parole né versi
persi perduti persi
fuoco e cenere
il fuoco acceso la cenere nei capelli
la cenere negli occhi
gli occhi aperti le orecchie
e dietro di noi nel crepaccio
oh lo senti come tramonta il cielo
oh come tramonta tramonta
è come ridere
con gli occhi gialli noi riuniti
ad ascoltare la tazza, il vaso
perché questo fuoco non fa rumore?

Sale il silenzio dal grande crepaccio
e il fuoco tace
tace il vaso tace la tazza tacciono i capelli
la tazza in bilico tace
tutto sta composto
e tace
le cose tutte che sono qualcosa
le cose che le cose che non
che con noi non
con noi
con noi c’è una musica una specie
di bianco.

[*] “Il vaso contiene, nasconde e conserva un vuoto. La sua superficie si offre allo sguardo e al tatto. L’artista rende preziosa questa superficie perché faccia innamorare di sé chi la tiene tra le mani. Chi si innamora dell’oggetto dimentica o non sa che il contenuto, il vuoto, è più prezioso del vaso: è una piccola parte dell’universo. Ogni oggetto d’arte rende tangi-bile ciò che sarebbe inafferrabile.”
(M.Lai, Le ragioni dell’arte Edizioni A.D. Arte Duchamp 2002)

Weawers’ oracle by Carolyn Hillyer

 

A cura di:
Redazione Armunia

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