14 Novembre 2020

Sara Sguotti: tra compartecipazione e reazioni

Intervista di Claudia Caleca

Sara Sguotti, danzatrice attiva nella scena contemporanea e ospite ad Armunia, lavora su un nuovo progetto artisticoSara Sguotti, danzatrice attiva nella scena contemporanea e ospite ad Armunia, lavora su un nuovo progetto artistico che si rifà a Space Oddity, presentato al Festival Inequilibrio di Rosignano Marittimo questa estate. L’artista, che si nutre della relazione col tempo, lo spazio e le persone, continua la sua riflessione intorno allo scenario della relazione, basata sulle reazioni, collaborazioni e gravitazioni verso un viaggio che disgrega la canonica visione di un evento spettacolare. La ricerca, in fase embrionale, è supportata da Spartaco Cortesi per le musiche, Nicola Cisternino e Elena Giannotti per la dimensione scenica, e Mattia bagnoli per le luci.

Sara Sguotti - Armunia - foto di Antonio Ficai Qual è la necessità della ricerca artistica?
La ricerca parte da Space Oddity, un meccanismo semplice dalla durata variabile, che si serve del disorientamento come punto di partenza. Sto lavorando infatti sull’idea di scardinare la situazione fisica canonica, dove il pubblico arriva e guarda uno spettacolo, al fine di creare un insieme di relazione che diventino lo spettacolo stesso. E’ centrale ciò che si crea fra me e lo spettatore. Vorrei infatti portare il lavoro in uno spazio dove palco e platea possano fondersi, diventando un rituale che includa il pubblico alla performance. Sto lavorando su due piani: uno fisico, capendo come scendere dal palco e portarvi sopra le persone; l’altro virtuale, come essere qui e altrove in maniera live. 

Sara Sguotti - Armunia - foto di Antonio Ficai E’ un lavoro che cambia in base al posto, alle persone e al modo con cui ti entri in scena?
Si. Vorrei capire come riuscire fisicamente a dare una soluzione differente ogni volta. E’ proprio l’idea della convivenza tra virtuale e live che vuole trovare altri spazi. Data la situazione odierna, la poca capienza dei teatri e la difficoltà nel fare repliche, questo può rispondere anche a esigenze pratiche. Voglio inoltre creare più spazi fruibili contemporaneamente, una condizione ibrida che, attraverso il virtuale renda visibile l’azione da più punti nello spazio e per più persone contemporaneamente, anche dislocate in luoghi diversi.

Come lavorano questi codici dal punto di vista espressivo?
Come se fossero più livelli. Si somma la fisicità e il corpo, la musica, l’illuminazione e il video. Potrebbero esistere in maniera singola ma si trovano a convivere insieme al pubblico. Immagino in più camere in scena che riprendono l’azione da vari punti di vista e che poi proiettano su vari schermi: chi osserva non vede un solo schermo ma più dettagli, un prisma. In tutto ciò il pubblico deve avere spazio e libertà. Può sedersi dove vuole e decidere di spostarsi man mano. Quando poi chiederò alle persone di entrare a far parte della danza questi saranno parte integrante della scena. 

Sara Sguotti - Armunia - foto di Antonio Ficai Il lavoro è indipendente o interdipendente rispetto al primo?
Direi sia in direzione di continuità. E’ il secondo step e una parte della ricerca parte proprio dallo stesso punto dato che mi piace cercare relazioni.

Hai un metodo di ricerca?
La mia ricerca vive di intuizione. Dall’intuizione di necessità fisica, di cosa ho voglia o bisogno di fare col corpo, capisco l’origine e gli do vita con la danza o altri linguaggi.

Si può parlare di differenza o uguaglianza tra i due lavori?
Li vedo diversi. Il primo crea una relazione spaziale e interpersonale, questo è molto performativo e affonda in più traiettorie. Non c’è più distorsione di realtà o spaesamento. Io, come il pubblico, ho il mio universo interiore e accolgo lo spazio col corpo grazie all’interazione. La performance va aventi perché alcune persone si mettono a servizio della costruzione della scena, quindi di un immaginario che si crea grazie a loro.

Sara Sguotti - Armunia - foto di Antonio Ficai E’ un lavoro più organico…
Si. Space Oddity è semplice, nient’altro rispetto alla danza e ciò che si crea tra me e chi mi guarda. Vorrei che lo stesso avvenisse in questa nuova ricerca  ma con linguaggio differente, non tramite l’attrazione della danza ma tramite la compartecipazione. C’è bisogno infatti di attesa, di dare il giusto tempo a ciò che accade in maniera comunitaria, di capire come creare un habitat collettivo. Io ne sono la fautrice ma in realtà ciò che accade è grazie alla compartecipazione in maniera disinteressata. Il fruitore accetta la propria posizione nello spazio e accetta di modificarlo.

È reazione più che relazione?
Si, ecco perché mi spaventano le sedute! Vorrei scardinare il ruolo classico dell’osservatore. A volte in scena guardo il pubblico e mi rendo conto di come guardano, altre volte sono io nel pubblico a guardare gli altri che guardano uno spettacolo. È interessante, da spettatore, sapere che puoi esser guardato.

A cura di:
Claudia Caleca

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