Quando c’è polvere sotto il tappeto – Amor Vacui e Tutta la vita
Intervista di Claudia Caleca
Quanto siamo padroni del nostro futuro?
Come influenzano la nostra vita decisioni prese in passato?
Siamo davvero consapevoli di chi siamo e che cosa facciamo o forse stiamo procedendo dentro una cassa di risonanza che rischia di trasformarsi in un circolo vizioso?
Ecco alcuni degli interrogativi che si pone Amor Vacui, compagnia in residenza ad Armunia presso il Castello di Rosignano Marittimo, composta dal regista Lorenzo Maragoni, dal drammaturgo Michele Ruol e dagli attori Andrea Bellacicco e Eleonora Panizzo (diplomati all’Accademia del Teatro Stabile del Veneto). Completano il team l’organizzatrice Leila Rezzoli e il tecnico Roberto Raccagni.
Per l’occasione abbiamo incontrato Lorenzo, Andrea e Eleonora che ci hanno parlato di Tutta la vita, (produzione La Piccionaia – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Stabile del Veneto – Fondazione Teatro Metastasio), una riflessione sull’incedere sordi in un vortice di comportamenti automatici, al fine di aprire una frattura in ciò che consideriamo indubitabile.
Come è nata Amor Vacui e perché avete deciso di chiamarvi così?
Andrea: Amor Vacui è nata nel 2010 presso gli spazi dell’Accademia di Arte Drammatica dello Stabile del Veneto ma, ancor prima della Compagnia, ha preso forma il nostro primo spettacolo: Elena di Euripide. E’ stato grazie a quest’esperienza che abbiamo scoperto il piacere di lavorare insieme. Amor vacui è legato a quel tipo di sensazione, di far nostra la paura del vuoto, del “chissà cosa succederà” e nello starci bene insieme. Era un horror vacui personale diventato poi amor vacui, ossia la possibilità di trattare insieme quel vuoto attraverso il fare teatro.
Lorenzo: Amor vacui è un modo di esorcizzare il vuoto. A oggi iniziare uno spettacolo è sempre una questione di incertezza.
A proposito del progetto della residenza, come e quando nasce “Tutta la vita”?
Lorenzo: Nasce due anni fa poco dopo Intimità, l’ultimo di una trilogia che affronta rispettivamente i temi del lavoro, università e vita sentimentale. Con Tutta la vita le domande alzano la posta in gioco. Arrivi a un momento della vita in cui ti chiedi: “Ma che cosa sto facendo?” E’ come se ci fosse un certo percorso che seguiamo automaticamente, come l’università o il lavoro, magari è quello che capita, o magari è quello che vuoi fare, ma a un certo punto a trenta o a cinquanta anni (o magari mai) ti dici: “Aspetta, mi trovo qui perché l’ho deciso o perché l’ha deciso una versione di me di dieci anni fa e adesso ne sto pagando le conseguenze?”. Quindi ci siamo interrogati su questo, immaginando che al pubblico possa interessare questo tipo di domanda.
Pensate che il vostro interrogativo sia ancor più attuale rispetto a ciò che stiamo vivendo da marzo? E’ cambiato il focus del lavoro da due anni fa ad adesso?
Andrea: Il cambiamento non è stato diretto. Tutti i nostri spettacoli dopo Elena sono figli di domande che restano in attesa, che ci osservano da lontano ma che dobbiamo guardare in faccia prima o poi: il lockdown è stato il periodo in cui non si poteva scappare da domande del genere. Se prima il lavoro me ne allontanava, il lockdown ha fatto scoppiare tutto. Cosa stai facendo della tua vita? Come ci sei arrivato? Questo periodo ha scavato ancor di più in un territorio nel quale ci eravamo già avventurati. Dal punto di vista di ricerca personale le nostre prove rappresentano quello scavare. Nel momento in cui ci siamo rivisti è stato come se alcune cose già scritte fossero sì rimaste identiche ma avessero acquisito un peso diverso. La parola è identica ma è cambiato il nostro modo di pronunciarla.
Eleonora: Le nostre domande esistenziali hanno trovato indirettamente modo di radicarsi. In un momento di grande negazione, cosa ti chiedi veramente? Il lockdown ha approfondito un qualcosa che c’era già. Non appena ci siamo rivisti quel qualcosa era ancor più incastrato e più vissuto dentro di noi.
Andrea: Prima avevo il dubbio di quante persone si stessero chiedendo quello che mi chiedevo io ma, dopo questo periodo in cui ognuno è stato con sé stesso, ho visto il cambiamento in persone che conosco e quindi mi è sparito il dubbio. Mi son detto: “Ok, è una domanda che si può fare”.
Dall’idea qual è stato il percorso di ricerca sia dal punto di vista registico-drammaturgico che da quello corporeo-attoriale?
Lorenzo: Al principio Tutta la vita si chiamava Perché siamo qui? dato che eravamo soliti fare un gioco: ci chiedevamo il perché di ogni azione, in una concatenazione di “perché” proprio come i bambini. In sala prove è nata la drammaturgia, che è frutto di una scrittura scenica, interiorizzata dagli attori in forma scritta. È uno spettacolo frontale, parlato al pubblico, ironico, senza personaggi o quarta parete, è qui e ora. Il tutto è arricchito da immagini, metafore, azioni fisiche, oggetti e musica. La parte cognitiva-verbale è ibridata a quella istintiva-infantile. Non vogliamo inscenare un saggio bensì uno spettacolo godibile e divertente. Quindi, dopo aver individuato cinque-sei momenti, li abbiamo scritti. In questo ha collaborato anche Michele Ruol, drammaturgo.
Eleonora: La nostra idea è quella di tenere la comunicazione aperta: quando sentiamo da dentro o da fuori che interrompiamo la comunicazione, che l’oggetto di cui stiamo parlando diventa meno interessante, cerchiamo di cambiare parole o modalità o scena.
Lorenzo: I capisaldi sono chiarezza, informalità e tranquillità dello spettatore. Lo spettacolo deve esser trasparente affinché possa agire sul contenuto, che pensiamo arrivi meglio come se fosse una chiacchierata.
Tutta la vita va verso una conferma dell’esistente o una decostruzione di una certezza?
Eleonora: Mi piacerebbe andasse verso entrambe le direzioni, che sia una scomposizione di convinzioni che ho dato per certe e ritengo inattaccabili e una risposta, magari vagamente positiva, a una condizione personale pregressa. Idealmente lo spettacolo dovrebbe lasciare la voglia di farsi una domanda vera o di agire veramente.
Lorenzo: Ci piace pensare che qualche spettatore sia in attesa di vedere uno spettacolo del genere e gli faccia pensare: “Forse posso darmi il permesso di prendermi un po’ più cura di me stesso invece che continuare a farmi sempre male allo stesso modo”.
Tutta la vita potrebbe dare allo spettatore uno strumento per agire?
Andrea: E’ una riscoperta di consapevolezza rispetto a quello che diciamo, di quanta azione può avere: ricordartelo può esser utile. Anche io spesso mi sono detto che non c’era alternativa ma, se mi fossi ascoltato meglio, avrei capito che non era così ma la condizione di sentirmi senza alternativa mi scagionava e mi davo il permesso di comportami in un determinato modo. Non stavo realmente realizzando le possibilità che avevo. Vogliamo riscoprire questi piccoli momenti, spolverarli e dire qualcosa.
Eleonora: Più che di uno strumento parlerei di un accordo. Nella vita mi capita, in una buona conversazione, di percepire quel momento in cui mi sento accolta da chi mi ascolta, liberata, al punto tale da abbattere le mie difese e mettere in discussione argomenti dati per scontato. Lì sento una pace: posso fare una cosa diversa, dire una cosa diversa, essere una persona diversa. Vorrei che questo tipo di comunicazione avvenisse sul palco.
La vita è una, ed è sempre tutta alle nostre spalle: è sempre tutta davanti a noi.