Caratteri e contemporaneità: A peso morto di Carlo Diego Massari
Intervista di Claudia Caleca e Elena Pancioli
A peso morto di Carlo Diego Massari è uno spettacolo graffiante, una sorta di fotogramma di una periferia senza tempo e identità. Il protagonista si sente una comparsa passiva di una città che non riconosce, una “Città Metropolitana”, che significa tutto e il suo contrario e che sprofonda nell’oblio… La città si “evolve”, si espande, dimenticandosi degli individui che hanno abitato le zone più marginali, connotandole con i loro stessi tratti distintivi, con i dialetti, con le proprie memorie, le proprie rugosità. La performance. che Carlo Massari ha presentato al Festival Inequilibrio 2020 nel giorno dell’apertura della seconda parte, è uno studio open-air sul vuoto della memoria perduta, sull’oblio delle cose andate.
Come e quando è nata l’idea di questo spettacolo?
Carlo: L’idea di A peso morto nasce nel 2016. Ha avuto una gestazione lunga proprio perché ho deciso di lavorare in un altro modo rispetto al mio solito, cercando di dare un lungo processo creativo al lavoro. Seguendo i tempi ministeriali e di produzione, solitamente per mettere in piedi un’opera ci vogliono dai 20-30 giorni, al massimo 40. Credo che la produzione, quando passa dalla ricerca, abbia bisogno di più tempo, sviluppo, pensiero. Quello che arriva al pubblico sono degli scarti, dei residui di un lavoro che filtra caratteri. Questo lavoro nasce dall’interrogazione che mi sono fatto sull’ansia che abbiamo come esseri umani di volerci allargare dal centro, come una città metropolitana. La città nasce prima come borgo, poi come paese e infine diventa città. La metropoli in qualche modo va a cancellare completamente quella che è l’idea di periferia. Nell’idea di periferia c’è tanta ricchezza in termini umani, magari c’è povertà in termini economici. Le figure che una volta abitavano la periferia lentamente si stanno estinguendo: il vecchio con la radio, il giovane con il pallone. Ci stiamo socialmente uniformando, omologando “al centro”; c’è un’espansione del centro che va a discapito di questa sorta di “scorza” esterna che viene considerata feccia, ma che in realtà è un materiale interessante che conserva ancora una forte identità. Il vecchietto con la radiolina è esemplificativo di tutto un universo che ci appartiene e che rappresenta le nostre radici. Durante questa mia ricerca, i caratteri che volevo rappresentare, lentamente, si sono andati a sviluppare. Infatti oggi si chiama A peso morto. Inoltre è una performance composta da “Lui, Lei e l’Altro”. A Rosignano ho portato Lui, il primo carattere che è nato. Lei in qualche modo è rappresentativa dell’arte, anche l’arte sta cambiando e si sta omologando al “come essere artisti”, assistiamo ad una sorta di depersonalizzazione. L’Altro è un lavoro residenziale che di volta in volta viene creato nei luoghi in cui vado dove chiedo di vivere uno spazio per ¾ giorni, uno spazio all’aperto, in connessione con gli altri; questo genera il carattere che ogni volta cambia. Questo processo è nato nel momento in cui stavo eseguendo il solo Lui e ho iniziato ad osservare il panorama umano e variegato che mi circondava: Tu spettatore non sei solo all’esterno, ma diventi a tua volta mezzo di ispirazione per me creatore.
Possiamo dire che ci sia uno scopo sociale?
Carlo: Si. Questo lavoro nasce con l’idea di comunicare e trovare un contatto con il pubblico. La mia compagnia, C&C è sempre stata interessata ad un rapporto con la società e con le tematiche attuali, contemporanee. In realtà la base della compagnia è C&C Company ossia Corpo&Cultura e prende il nome dal titolo del primo spettacolo che abbiamo fatto. Il principio alla base di ogni creazione della compagnia è quello di capire come la cultura può essere trasformata attraverso i colpi che la rappresentano, “la portano” e di capire come i corpi possano essere trasformati, cambiare forma e movimento nella cultura che rappresentano. Questi sedimenti compongono un corpo che porta con se un bagaglio culturale, è un magazzino, contenitore.
Qual è il processo dall’osservazione alla messa in scena?
Carlo: C’è una prima fase in cui io spio e vengo spiato. La meraviglia di quando entri in contatto con una realtà è che la materia che guardi sta già subendo una trasformazione, avviene un contatto. Per esempio, prendo un caffè e sto fermo in una piazza con la maschera. A Roma mi sono messo la maschera e ho vissuto in un quartiere, più o meno abitato da anziani; questi anziani pensavano che fossi veramente uno di loro, tanto che sono venuti a vedere lo spettacolo e quando mi sono tolto la maschera c’è stata un’esplosione di stupore e meraviglia. Ho mandato in tilt una figura che a loro fino a quel momento era ben chiara e in cui si erano identificati. La bellezza di questo tipo di ricerca è che ti ritrovi di fronte all’umanità che si rivede in te. Io non credo nel solo teatro che sta in sala, chiuso. Credo che sia arrivato il momento di esternalizzarsi, di uscire fuori, di farsi vedere e soprattutto di raccogliere dall’esterno.
Cosa accade successivamente?
Carlo: Segue l’annotazione di tutto quello che è movimento. Cerco di intercettare per poi introiettare quelle che sono le gestualità, i rituali quotidiani, l’universo di queste persone che abitano quei luoghi, del paesaggio umano che abita lo spazio. Dopodichè mi prendo un momento per me dove codifico le suggestioni e, ritornando nello stesso luogo, provo a riadattare a quel luogo la gesture di queste figure al fine di creare una partitura fisica che rientra nel suo luogo originale. Vi sono inoltre “fasi di decantazione”. Considero fondamentale darmi del tempo e concedermi l’errore al fine di tentare approcci nuovi, perseguire l’evoluzione. Se continuiamo a far cose che funzionano e senza errori marceremo sempre sullo stesso piano. Immobili.
E dal punto di vista della fruizione?
Carlo: Vi racconto un aneddoto meraviglioso… Nel 2016 a Bologna un anziano mi ha avvicinato dopo aver visto lo spettacolo e ringraziato calorosamente dicendomi: “Grazie perché mi hai fatto vedere un qualcosa che nella mia testa potrei fare anche io”. E lì ho capito che si è sentito rappresentato da me, si è rivisto nel mondo in scena. E’ il più grande complimento-regalo che mi abbiano mai fatto.
Quindi il tuo interesse per le periferie si riflette anche nel fatto che tu abbia scelto di venire a Rosignano Marittimo…
Carlo: Totalmente. Qui hai un corpo unico di persone. Più si restringe il check della società, più essa diventa impenetrabile e per accedervi devi riuscire a farti voler bene.
Come si inserisce all’interno della performance la suggestione del regista Roy Andersson?
Carlo: A me interessa l’atto di osservazione, quindi di interpretare la finzione. Ad esempio il bosco sullo schermo non è mai vero: Andersson vuole che lo spettatore abbia la consapevolezza della finzione ponendolo però di fronte a un’umanità vera e sofferente. Quindi la verità sta all’interno della finzione.
Nella scheda di presentazione del tuo spettacolo scrivi “smarrimento e desiderio di sentirsi appartenere a qualcosa o qualcuno”. Questi tuoi interrogativi riescono a trovare delle risposte?
Carlo: Credo che l’arte abbia il compito di insegnarci a domandarci qualcosa. Non deve darci una risposta ma amplificare i nostri interrogativi, porci davanti una domanda. Se vado a casa con una riflessione in atto ecco che chi è dall’altra parte ha fatto un buon lavoro. In scena espongo il mio punto interrogativo e, in quanto tale, rimane aperto al momento della sua esposizione.
Boh… Quasi quasi tornerei a casa… Se solo mi ricordassi da dove sono venuto e dove stavo andando…