L’intelligenza del corpo: autenticità e differenza in Ekphrasis di Paola Bianchi
Intervista di Claudia Caleca
In occasione delle Residenze Artistiche ad Armunia abbiamo avuto il piacere di parlare con Paola Bianchi, danzatrice attiva sulla scena contemporanea, portatrice di una “progettualità positiva” che fa dell’incontro con l’altro il nutrimento di una energia artistica necessaria. In previsione del debutto di EKPHRASIS a Inequilibrio XXIII, lavoro all’interno del progetto di creazione ELP, siamo curiosi di approfondire con l’artista il processo di studio e creazione di una nuova opera…
Che cosa rappresenta per te la Residenza Artistica?
Paola: E’ la fase fondamentale, il momento in cui sono fuori dalla quotidianità ed entro in una “bolla” nella quale ho la possibilità di indagare a fondo il mio lavoro, concentrata e senza vincoli: è come una sospensione della quotidianità. Paradossalmente in una settimana faccio il lavoro di un mese! (sorride). Lo spazio prove è ovviamente di vitale importanza ma anche la relazione con altri artisti e compagnie in residenza, con gli operatori e lo staff non è meno importante. Il confronto con Angela Fumarola, direttrice artistica di Armunia, mi ha aiutata a sviluppare il progetto in direzioni che ancora non avevo considerato. E così l’anno scorso, sempre qui ad Armunia, ho sperimentato per la prima volta la trasmissione della danza attraverso la parola descrittiva con gruppi di persone non professioniste e, tra un paio di giorni, incontrerò una classe prima del liceo tecnologico di Rosignano insieme ad alcuni ragazzi albanesi e kosovari per Immigrato a chi?, progetto del CIAF di Rosignano – il progetto ELP si sta infatti sviluppando in una direzione multiculturale. La conoscenza delle realtà del territorio è un fattore fondamentale per lo sviluppo dei progetti in residenza.
Quando e come è nata l’idea di ELP?
Paola: L’idea nasce molti anni fa dal desiderio, o forse dalla sfida, di portare la danza là dove per sua natura non può arrivare: alla radio e alle persone non vedenti. Volevo far “vedere la danza attraverso le orecchie”. I primi esperimenti creativi hanno ricevuto fin da subito riscontri positivi, soprattutto da persone non vedenti, e questo è stato lo stimolo per continuare. Il progetto ELP, incentrato sulla trasmissione di posture attraverso la parola descrittiva, parte da una ricerca intorno alle immagini che hanno segnato un punto fermo nella cultura occidentale. Ho chiesto a una quarantina di persone di inviarmi le immagini pubbliche (non private, non personali) che si sono fissate nella memoria, immagini che anche dopo molto tempo continuano ad essere vive nella memoria visiva. Si è quindi andato a comporre un archivio di immagini (350). Ne ho incarnate una selezione attraverso uno studio approfondito intorno a ogni immagine – non solo la postura del corpo, ma anche la forza che lo attraversa, lo spazio che contiene quel corpo, il prima e il dopo del momento immortalato. Da questo processo è nato ENERGHEIA, primo step del progetto ELP. Successivamente ho ripreso in video la coreografia, estrapolando le posture del mio corpo nei momenti che coincidevano con il punto più vicino all’immagine di partenza. Ne è nato un archivio di posture che ho descritto e registrato in voce e che trasmetto via audio.
Mi sembra di percepire una eco sociologico-psicologica nel tuo lavoro…
Paola: Non nego che all’interno di ELP abbiano lavorato due sociologi della comunicazione (Laura Gemini e Giovanni Boccia Artieri) e una psicologa (Annapaola Lovisolo) con i quali mi sono confrontata, ma il fulcro della mia indagine è il corpo, i corpi. Alcune immagini si sedimentano nella nostra memoria visiva e le ricordiamo anche a distanza di tempo, magari inconsciamente o addirittura diversamente dall’originale. Queste immagini si depositano nei nostri corpi, diventano nostre e arrivano a modificare sottilmente le nostre posture o il nostro modo di muoverci.
Prima hai parlato di ELP come di un progetto a “direzione multiculturale”: puoi approfondire?
Paola: L’archivio di immagini che ha generato ENERGHEIA proviene da persone italiane. Sto iniziando a raccogliere immagini da persone straniere che vivono in Italia. Credo che i nostri corpi si parlino nella quotidianità e sono sicura che, piano piano, un gruppo di persone che si frequenta, senza volerlo, inizierà a muoversi nello stesso modo. Da bambini si impara imitando, quando si cresce si attiva la consonanza. Ecco che le immagini che percepiamo, che modificano le nostre posture, possono essere “trasmesse”, modificandoci leggermente. Mi sono quindi domandata: “Cosa portano con loro le persone provenienti da altri paesi? Qual è il loro bagaglio d’immagini? Cosa prendiamo noi da loro e cosa diamo noi a loro?”. Si assumono involontariamente alcune posture: il corpo ha un’intelligenza tutta sua.
In Ekphrasis che rapporto specifico si stabilisce tra il codice verbale e quello performativo?
Paola: L’archivio di posture descritte e registrate in voce vengono ora trasmesse a dieci giovani danzatrici e danzatori per creare EKPHRASIS, spettacolo che debutterà a Inequilibrio XXIII ad Armunia. La trasmissione delle posture avviene sempre tramite un audio registrato perché la lettura in diretta porterebbe a enfatizzare particolari movimenti, darebbe ulteriori indicazioni. La parola è fondamentale ma viene dimenticata una volta assimilata: è il punto di partenza per capire e studiare la forma del corpo. Una volta assunta e memorizzata, ognuno lavora sul risultato, che avrà un titolo, un nome, un’immagine nuova svincolata dalla parola e dall’immagine di partenza sulla quale ho lavorato io. Danzando, inoltre, le forme perdono quasi il segno primario: la parola è una materia che stiro e modifico, il pretesto di partenza. Quello che mi interessa è la personale concezione di ogni danzatrice e danzatore, è la liberta nell’indicazione. Anche se la descrizione delle posture è molto precisa l’incarnazione non è mai uguale da soggetto a soggetto: e questo per me è meraviglioso! E’ un passaggio in cui il corpo del maestro come modello da seguire e imitare viene eliminato. Io ricerco l’autenticità ed essa sta nelle sfumature, nelle varie possibilità di assumere una forma, nella sua trasformazione.
Possiamo quindi parlare di metodo?
Paola: Direi di sì. I danzatori non sono liberi di fare ciò che vogliono né completamente dipendenti da una forma: dopo le indicazioni e la sequenza personale, io stessa cerco l’essenza frammento per frammento. Non mi interessa il “fare” bene bensì “l’essere”: il danzatore deve essere, se “è” è credibile, se “fa” è bravo.
Inevitabile non pensare agli studi di Semiotica di Umberto Eco: il senso sta nella pluralità di interpretazioni, senso che nel tuo progetto è visibile, in carne ed ossa…
Paola: Esattamente! Differentemente che in Semiotica, dove il senso si evince se entrambe leggiamo lo stesso testo e ci confrontiamo, in EKPHRASIS il palco diventa materia di studio. Dieci soggetti hanno sì avuto le stesse indicazioni ma il risultato è differente tutte e dieci le volte! Non ha senso cercare corpi che si muovono nello stesso modo, dato che i corpi sono diversi, hanno energie, altezze, pesi ed esperienze diversi. A me interessa sviluppare la differenza e non appiattirla, specialmente lavorando con giovani e promettenti danzatrici e danzatori. Ho scelto di lavorare con soggetti da 20 a 30 anni proprio per confrontarmi con un’energia diversa dalla mia e capire cosa succede nell’incontro tra i miei archivi e un corpo più giovane del mio.
La tua è anche un’esigenza artistico-pedagogica?
Paola: Non è il mio scopo, ma questo sta succedendo! (sorride). Lavorando ho iniziato a sentirmi addosso questa “responsabilità” ma, allo stesso tempo, non voglio che i danzatori prendano me e il mio metodo come “verità assoluta”, anche se in questo momento ci muoviamo dentro questa dimensione e la indaghiamo fino in fondo. Talvolta parliamo anche di Storia della Danza, perché è comunque importante il dialogo tra generazioni: mi interessano le loro esperienze, lo scambio reciproco e non il dare senza ricevere.
Lavorare con più persone è più difficile?
Paola: Dipende, potrei dire che è legato all’esperienza personale, se, come nel mio caso, si è abituati a lavorare da soli, c’è un attimo in cui ci si deve resettare e portare lo “sguardo esterno” veramente fuori. Non è il mio sguardo che diventa sguardo esterno sulla scena, ma quello esterno che deve avere coscienza di ciò che accade dentro. E’ come se io, da dentro, lo vedessi dal di fuori ma non come semplice spettatrice. Con dieci danzatori è abbastanza complesso ma divertente.