Residenze creative: “Il canto delle balene -The wales song” di Chiara Bersani
Intervista di Elena Pancioli
Nel Castello di Rosignano Marittimo ha soggiornato per una residenza artistica Chiara Bersani, artista-performer vincitrice nel 2018 del Premio Ubu come miglior attrice o performer under 35. Ci porta la sua nuova creazione IL CANTO DELLE BALENE – THE WALES SONG che ha già radici lontane. Nasce infatti, come ci dice Chiara, da una commissione per una compagnia svedese Danskompaniet Spinn – norm-breaking and inclusive che ha dato vita a un’altra opera, MOBY DICK, che vedrà il suo debutto a settembre 2020 all’Oriente Occidente Dance Festival.
Nell’intervista abbiamo parlato dell’origine del nuovo lavoro pregno di significati e dell’importanza del processo creativo che sta dietro alla realizzazione di un’opera, un momento fondamentale, prosecuzione di un modo di “fare teatro” che ci accompagna ormai da molti anni.
LA NASCITA
Le chiedo quali siano state le “domande” che hanno mosso tutto questo lavoro.
Nel rispondere dichiara di essere in un momento in cui: «una nuova creazione si pone domande, ereditate da lavori precedenti, anche qualcosa che è rimasto irrisolto oppure che senti che può ancora fiorire, e qualcosa che invece arriva nuovo. Perché come artista voglio sempre rimanere in contatto con la realtà, con quello che succede, ancorata all’oggi.
Ci sono due linee. Quella sicuramente più urgente e violenta è legata all’attualità. Le prime cose che ho scritto su questo lavoro sono di due estati fa per una commissione di una compagnia di danza inclusiva svedese. Dovevo scrivere delle note di regia e in quei giorni ascoltavo vari interventi di Liliana Segre. Un giorno sentii un suo intervento in cui lei chiamava molti giovani ad assumersi la responsabilità del momento storico che stiamo vivendo. È la mia generazione che ha creato questa situazione, come possiamo risolverla? Non essendoci opposti abbastanza siamo anche noi responsabili. La situazione adesso è questa, e noi ora cosa facciamo? Siamo fermi, siamo spaventati, siamo colpevoli e non sappiamo come gestire tutto questo. Questo (stato d’animo) non fa che scatenare una paralisi, che diventa complicità. Se non fai niente sei complice.
Così come note di regia mi sono ritrovata a scrivere una lettera a mio marito in cui parlavo proprio di questo senso di smarrimento che noi come coppia stavamo attraversando e mentre lo scrivevo per il gruppo svedese mi sono anche resa conto che questa non era una questione che “a loro interessava”. Questa era una questione italiana, di gente del Mediterraneo, di noi che affrontiamo concretamente una questione di frontiera e sappiamo cosa vuol dire essere carnefici.
Staccandomi da questo lavoro ma mantenendo questa questione di base, per me importantissima, sta nascendo IL CANTO DELLE BALENE – THE WALES SONG, ad oggi un progetto mio, indipendente. Un lavoro che deve essere fatto adesso, non può aspettare, questa è l’urgenza dell’attualità.
L’altro filone guarda al mio lavoro creativo fatto fin qui. L’elemento fondamentale su cui ho sempre lavorato è quello di trovare una presenza nello stare in scena. L’energia sia di questo corpo, e dei corpi in scena che delle persone che vengono a vedere lo spettacolo, i quali sono sempre invitati a viverlo in qualche modo non ad essere spettatori distanti. È da anni che sono alla ricerca di una presenza che sia veramente basata quasi sul NIENTE che diventa TUTTO, un segno, come un movimento di un dito, di uno sguardo.
Un lavoro che ha attraversato negli anni varie fasi di ricerca raggiungendo quello che sembrava il suo apice con Gentle Unicorn: una poetica che entra nel mio corpo e viene esperita da esso stesso sulla scena. È nata successivamente la volontà di andare oltre. Questa qualità non è legata solo a me e alla mia fisicità complessa e divergente, è una qualità legata all’essere umano. È nato così il desiderio di sperimentarlo anche con un corpo diverso. Ovviamente il corpo scelto non poteva che essere quello di Remo Ramponi (danzatore/performer) con cui lavoro da tanti anni e che insieme a me ha studiato questo lavoro energetico che parte dal “niente”.
Dall’unione delle nostre due ricerche è nata questa riflessione: noi non sappiamo quale si la soluzione a questa immobilità generazionale, però, sappiamo e crediamo che sia fondamentale la costruzione di un’idea nuova di comunità che appartenga a questi anni. L’unico modo per non essere immobili, e ne siamo convinti, è la costruzione di una comunità, di una voce unica, di un unico canto».
LE FASI DEL PROCESSO CREATIVO
Adesso, sulla scena, a livello concreto, ripercorrendo tutte le residenze vissute fin qui, che forme sta prendendo l’opera?
«La storia produttiva ha influenzato tutto il percorso. Ho dovuto fare delle “residenze intime”, perciò il lavoro si sta costruendo con un’attenzione ai vari ambiti da curare separatamente, per poi arrivare in un momento in cui tutti gli ambiti si incontrano.
C’è stata una prima parte del percorso produttivo incentrata tutta su Remo in cui siam stati da soli io e lui o io, lui e F. De Isabella (gruppo Strasse) per l’aspetto sonoro venuto in osservazione, non a produrre. C’è stata poi la residenza in cui eravamo solo io, Remo e il pubblico durante il Festival di Santarcangelo, in cui non avevamo una sala prove ma eravamo parassiti di spettacoli di altri che accettavano, mezz’ora prima del loro spettacolo, di farci sperimentare con il loro pubblico dei dispositivi, in 20 minuti. Adesso ad Armunia si sta concludendo una residenza che ha avuto come focus l’aspetto musicale, la creazione di un ambiente sonoro e la scoperta che ci sarà una voce, la mia e quella di De Isabella.
Nelle prime residenze con Remo abbiamo creato un primo “alfabeto” (di movimenti) che si sta articolando sempre di più. Remo si sta allenando con un’insegnate di valzer che abbiamo individuato qua su piazza, per accumulare parole fisiche, linguaggi. Così Remo cerca di capire, a seconda di chi è presente, quali sono le “parole” giuste, la gestualità giusta, per intrattenere un discorso.Incontreremo, alla fine di questa residenza, Valeria Foti la disegnatrice delle luci per questo lavoro. Ci sarà una futura residenza a Dro, dove io e Remo verremo seguiti da Marta Ciappina (danzatrice con cui lavoro da sempre) che avrà il ruolo di moviment coatch. Con lei decodificheremo tutto il materiale di queste ricerche e sperimentazioni, sarà l’ultima residenza tecnica sul gesto. Infine l’ultima residenza a Torino dove metteremo insieme tutti questi elementi diversi che sfoceranno nel debutto a Gent (Belgio) il 5 marzo 2020.
Com’è nato il collegamento di questo lavoro sull’attualità con il mondo animale delle balene?
«Quando percorrevo la via dell’ispirazione datami da Liliana Segre l’immagine del mare è apparsa immediatamente. Dovevo assolutamente rifletterci. Poi mi sono detta di non essere in grado di parlare di qualcuno che non conosco. Non voglio e non posso parlare a nome di chi viaggia in mare, non ho questo diritto e non posso nemmeno parlare a nome dell’italiano che non sa cosa fare, perché è una figura che non mi piace e che vorrei scardinare, non ne vedo l’utilità.
Così, trovandoci difronte al mare, all’elemento con cui dovevamo relazionarci per forza, e dopo aver capito che per noi era importante trovare una risposta ai tanti quesiti, soprattutto alla violenza attraverso la costruzione di una comunità, abbiamo pensato subito alle balene e ai cetacei in generale che sono animali comunitari in un modo che per noi umani è affascinate, perché le balene comunicano tra loro a 800 km di distanza nell’acqua, elemento conduttore e trasmettitore. Comunicano con suoni, attraverso in-put cerebrali, creando una rete comunicativa enorme che noi esseri umani interrompiamo con le navi. Anche qui l’uomo è complice in una “rottura”. Stiamo provando a non essere quelli che rompono ma quelli che ricordano che abbiamo una matrice in comune: noi possiamo vivere bene insieme attraverso una comunità, non possiamo vivere in solitudine. Il canto delle balene è per noi la realtà e noi stiamo creando un percorso per tornare a comunicare non verbalmente, per altre forme».
L’ESSERE PERFORMER
Il processo creativo che sta dietro alla realizzazione di un’opera è oggi fondamentale e parlando del tuo lavoro me lo confermi. Quindi ti chiedo, come performer, quanta autonomia hai tu rispetto alla creatura trasfigurata in scena? In che rapporto stanno i due livelli?
«C’è una connessione fortissima. Se noi chiediamo alle persone che vengono di sentirsi coinvolte, il performer che vive lo spazio deve rinunciare ad una “copertura” altrimenti non posso chiedere a te “spettatore” di rinunciare alla comodità e entrare in una tensione se io per primo mi sto nascondendo. Non lavoriamo su un racconto ben creato ma lavoriamo sul movimento di energie metafisiche e concrete all’interno di un ambiente che “strizzi l’intestino” che faccia “sobbalzare il cuore” che “alteri il respiro” e il performer per primo deve essere in questa situazione. Il mio lavoro non ha nulla a che vedere con il performer che si sacrifica, non è un sacrificio. In particolare, in questo lavoro, quello che sto chiedendo a Remo è simile a quello che ho fatto in Gentle Unicorn: cercare una via di mezzo per lanciarci nella realtà dell’evento, nell’attualità del momento, nello scambio di energie momentanee, però, cercando di tutelarci perché ovviamente, affinché la performance non naufraghi, il performer per primo deve essere solido emotivamente, bisogna comunque rimanere nel nostro lavoro molto razionali. Infatti adesso stiamo lavorando molto su questa cosa. Per Remo la soluzione è sempre la tecnica. Anche se i miei lavori sembrano molto destrutturati in realtà la base fisica ha una preparazione tecnica rigorosissima che ti permette di essere sicuro e concederti totalmente. Sai che puoi ancorarti a quella in caso di naufragio».