In dialogo con Paola Bianchi sul nuovo progetto coreografico: ELP – Ethos, Logos, Pathos
di Benedetta Pratelli
In occasione del laboratorio di danza che Paola Bianchi ha fatto ad Armunia, abbiamo intervistato l’artista e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più sul progetto ELP – Ethos, Logos, Pathos, nel quale saranno coinvolti danzatori professionisti e non per uno studio sul movimento in relazione alla trasmissione orale della coreografia.
Partiamo dal progetto e da come è nata questa idea.
L’idea nasce da lontano. Mi sono chiesta molte volte come portare la danza a chi non ha l’uso della vista o alla radio, non solo come analisi critica o descrizione sommaria, ma come far “vedere” la danza attraverso l’orecchio. Dopo molte sperimentazioni nel 2014 ho realizzato NoBody, un audiodramma coreografico, uno spettacolo di danza da ascoltare, da immaginare, un primo passo per portare la danza là dove non può stare. NoBody è la descrizione precisa e dettagliata di un solo di danza di dieci minuti, della figura che agisce la coreografia, dei suoi movimenti, dello spazio e delle luci. La descrizione avviene dal punto di vista dello spettatore: io spettatore vedo l’azione e la descrivo. In questo modo chi ascolta diventa lo sguardo, si pone fuori dall’azione, ma affinché la danza sia realmente percepita dallo spettatore è necessaria una sorta di identificazione con il corpo in movimento e non un distacco visivo. La descrizione del corpo e della scena deve quindi avvenire in prima persona, ed è proprio su questo nodo che sto lavorando.
Il titolo del progetto è ELP – Ethos, Logos, Pathos. Ethos inteso come un modo di essere, un “come”, Logos col doppio significato di “ascolto” e di “parola” e Pathos come forza emotiva. Questi sono i tre elementi che mi guidano nel percorso del progetto.
Come si svilupperà il lavoro?
Il primo passo fondamentale del progetto è la creazione di Energheia, un mio solo che sto realizzando in collaborazione con il musicista Fabrizio Modonese Palumbo e che sarà poi la base da cui si genereranno tutti gli altri dispositivi del progetto. Parti dell’azione coreografica di Energheia verranno descritte verbalmente e registrate in voce per generare da un lato la coreografia verbale The undanced dance, dall’altro delle tracce audio specifiche per sperimentare la trasmissione/enazione della danza attraverso la parola.
Queste sperimentazioni avverranno coinvolgendo gruppi diversi di persone e insieme andremo a creare altri dispositivi: Ekphrasis con 5 danzatrici e danzatori professionisti, un lavoro che sarà in residenza all’Arboreto di Mondaino e alla Lavanderia a Vapore di Collegno per approdare in forma di studio al festival Teatri di Vetro di Roma; Esti con un gruppo di non vedenti e ipovedenti che verrà creato a Genova in collaborazione con l’Istituto Chiossone, l’Università di Ingegneria e Teatro Akropolis che, durante il festival, ospiterà il risultato della nostra sperimentazione; Esti con un gruppo di non professionisti che verrà realizzato in residenza e presentato al Teatro del Lido di Ostia nell’ambito di Teatri di Vetro.
Il materiale coreografico di partenza sarà quindi scardinato, lavorato, o anche distrutto. È un processo abbastanza strano per me: solitamente il lavoro coreografico implica una ricerca sulla forma che è personale, a partire cioè dal corpo che la incarna, ma che ha comunque una forte direzione da parte mia. Qui invece la cosa interessante sarà proprio lasciare che la forma iniziale si deformi in funzione del danzatore che di volta in volta se ne farà carico senza che io dia indicazioni ulteriori. Sto ancora facendo delle prove, per esempio qui in residenza sto provando a consegnare alcune istruzioni, alcune descrizioni, proprio per capire qual è la reazione di chi ascolta e dove è portato il corpo di chi incorpora le mie descrizioni.
Nella descrizione scritta del progetto parli di “parole an-emozionali”…
La prima domanda che mi sono posta è relativa al sentire: è meglio descrivere la danza includendo le sensazioni e le emozioni che essa suscita o limitarmi alla descrizione analitica del gesto? Personalmente a teatro non amo la “chimica della lacrima”, quella modalità per cui una musica in relazione a una luce, a un movimento o a una parola genera automaticamente un’emozione: non è questo che mi interessa. La sfida è quella di aprire dei varchi emozionali attraverso un mezzo che esclude l’emozione, una parola che non porta in sé emozioni nella voce di chi parla (interpretazione priva di modulazioni emotivo-sentimentali) e allo stesso tempo non descrive emozioni. Proprio grazie all’assenza di emozione questa stessa parola “deve” a sua volta creare emozione. Vorrei che l’emozione arrivasse attraverso un processo di incorporazione, di immaginazione muscolare, un sentirsi parte.
Il processo non è affatto scontato e mi sta ponendo altre domande su cui è necessario riflettere profondamente. Per esempio un problema relativo alla creazione della coreografia verbale The undanced dance è il genere della voce parlante. L’incorporazione del movimento attraverso l’ascolto della parola avviene nello stesso modo se la voce registrata non è in consonanza con il sesso di chi ascolta? Può avere senso modificare elettronicamente la voce per renderla “neutra”, con il rischio così di escludere a priori qualsiasi genere? Un altro problema che sorge è inoltre quello legato alla declinazione dei verbi al maschile e al femminile. Insomma, ci sono una serie infinita di questioni su cui sto riflettendo.
A tal proposito in questi giorni hai incontrato anche le ragazze del Liceo Coreutico Niccolini Palli e hai incrociato il lavoro di Maurizio Lupinelli e del suo laboratorio. Come è stato questo incontro?
L’incontro è stato folgorante, anche per l’atmosfera che si è creata. C’è sempre stata un’attenzione molto alta, a volte un silenzio quasi irreale. Inizialmente i ragazzi del laboratorio di Lupinelli e le studentesse del liceo, pur condividendo lo stesso spazio, stavano in due gruppi ben distinti. Senza forzare l’approccio, i due gruppi hanno iniziato a mescolarsi e alla fine hanno lavorato a coppie, uno di un gruppo e una dell’altro, e l’hanno fatto spontaneamente, scegliendosi. Un momento per me magico. Un’esperienza formativa per tutti, sia a livello umano che artistico, un incontro sano tra diversità.
Dal punto di vista della mia ricerca è stato fondamentale vedere come sono state interpretate le mie indicazioni, incarnate seguendo una modalità personale, unica. È proprio questo che mi interessa: l’elaborazione delle indicazioni vocali senza seguire un modello esterno, senza l’imitazione del corpo del maestro; in questo modo il movimento diventa veramente parte di chi lo pratica. Sembra paradossale perché è un movimento che arriva da fuori ma non è un modello corporeo quello che segui: è l’elaborazione interna e personale di ciò che arriva dall’esterno.
E immagino sia interessante anche da parte di chi il laboratorio lo fruisce…
Ciò che mi viene detto è che i danzatori attraverso questo procedimento trovano un modo proprio di danzare che non avevano mai scoperto. L’imitazione visiva fa sì che il danzatore abbia sempre dentro di sé una parte del corpo di un altro, l’allievo tende a imitare “il maestro”, a essere “il maestro”, con tutta la frustrazione che ne può conseguire. Qui invece vengono scardinati i meccanismi corporei e in una griglia in realtà molto rigida si raggiunge una libertà estrema: se io dico “alza il braccio destro orizzontale, il polso rilassato e la mano aperta a ventaglio”, senza far vedere il movimento, ognuno interpreterà le indicazioni seguendo una propria logica. È quindi interessante la consonanza tra queste varie forme: non c’è più uno stesso modello imitativo, ma uno stesso pensiero. Forse in questo modo si arriva a vivere il movimento e non a fare il movimento.
Il progetto prevede anche la collaborazione con un comitato scientifico, da cosa nasce questa esigenza e come funziona in termini pratici questa collaborazione, questo scambio di visioni?
É il progetto stesso che lo richiede. Io da sola non riuscirei a focalizzare tutto il materiale, mentre mi concentro su determinate questioni rischio di finire per perderne altre. Ho coinvolto persone che stimo chiedendo di seguire il progetto con la loro specificità: Laura Gemini e Giovanni Boccia Artieri – sociologi della comunicazione, Anna Paola Lovisolo – psicologa, Alessandro Pontremoli – studioso e storico della danza, Ivan Fantini – scrittore. Alcuni di loro hanno seguito parte del lavoro svolto durante la prima residenza per Energheia alla Lavanderia a Vapore, altri seguiranno la fase di sperimentazione di The undanced dance, che si svolgerà a fine maggio sempre alla Lavanderia a Vapore e dove testerò il file audio con tre gruppi di persone: un gruppo di giovani danzatrici, un gruppo di anziani, di cui alcuni affetti da Parkinson, e un gruppo di bambini.
Mi sembra importante avere un altro punto di vista oltre a quello coreografico. Sarà un modo per riflettere insieme sui risultati di questo processo. Il progetto ELP è inoltre seguito da due tutor, Roberta Nicolai e Raimondo Guarino, due sguardi completamente diversi; quello di Roberta più prettamente teatrale, performativo, quello di Raimondo più intellettuale.
In definitiva che importanza ha la parola in questo progetto coreografico?
Il progetto ELP parte dal corpo, da una mia azione danzata, senza la quale il progetto stesso non potrebbe esistere, e ritorna nel corpo di altri (danzatrici e danzatori professionisti e non professionisti). La parola è un mezzo ma il punto di partenza è il corpo, entra nel lavoro partendo dal corpo, come pura descrizione del movimento. Quindi potremmo dire che la parola è fondamentale nella coreografia verbale The undanced dance, ma il nucleo centrale del progetto è ciò che viene dopo: l’incorporazione e l’incarnazione di quelle parole.
Le indicazioni sono istruzioni lette ad alta voce. La parola è funzionale alla coreografia, alla creazione del movimento, ma non sarà mai presente in scena. Mi interessano i corpi, il loro modo di incarnare il movimento utilizzando un metodo diverso di trasmissione della coreografia. La parola viene sempre utilizzata in sala prove, non è una novità. La differenza sta nella qualità della parola, nella sua essenza.
Quanta importanza ha la residenza artistica nel tuo modo di lavorare?
Quest’anno ho avuto la possibilità di partecipare a molte residenze ed erano anni che non mi succedeva. La residenza è una sorta di sospensione dalla quotidianità che concede di immergersi completamente nella ricerca, oltre a offrire occasioni di scambio e confronto con gli operatori ospitanti, permettendo al progetto di crescere e svilupparsi ulteriormente: mi è successo durante la residenza alla Lavanderia a Vapore così come mi è successo qui con il confronto quotidiano con Angela Fumarola.
Vivi un tempo dilatato ed è lì che si sviluppa la concentrazione. Certo, il contatto con il resto del mondo (mail ecc..) non lo perdi mai completamente, ma la residenza offre uno spazio di pensiero e di azione molto ampio.