Attodue e Murmuris: rappresentare Lagarce tra parole e silenzi
Intervista di Francesca Montagni
L’ultima settimana del festival Inequilibrio XXI ospita una messa in scena di Giusto la fine del mondo, una tappa della collaborazione di lungo corso tra le compagnie AttoDue e Murmuris. In una Sala del ricamo splendidamente allestita per lo spettacolo abbiamo fatto una chiacchierata con due esponenti di primo piano di questa coproduzione: la regista Simona Arrighi (AttoDue) e l’attrice Luisa Bosi (Murmuris).
Come prima cosa, domanda di rito: parlateci di questo lavoro che metterete in scena a InequilibrioXXI.
SIMONA: Questo spettacolo ha una storia abbastanza lunga: è nato nel 2014 quando abbiamo realizzato un primo allestimento durante una sorta di rassegna che abbiamo fatto sull’autore, Jean-Luc Lagarce. In questa rassegna abbiamo presentato anche un monologo, Le regole del saper vivere nella società moderna, e un altro testo di Lagarce che è stato presentato qui a Inequilibrio. Noi abbiamo presentato in teatro Giusto la fine del mondo e abbiamo lavorato per una messa in scena teatrale che potesse circuitare nei teatri. Lo abbiamo poi ripreso l’anno scorso, perché avevamo voglia di indagare un aspetto che nella prima fase era stato non evidenziato: quello dell’abitazione, e quindi non solo della famiglia ma anche della casa. Abbiamo deciso di presentarlo in luoghi atipici, quindi non teatrali, e che tutte le volte permettessero un allestimento particolare e in situ differente. Quindi ogni volta che andiamo in scena abbiamo sempre bisogno di preparare lo spettacolo e curare l’allestimento. Questo perché lo spettacolo parla di una famiglia, di un ritorno, di relazioni: di conseguenza la casa, la famiglia e la sala da pranzo dove si svolge tutta l’azione sono il cuore dello spettacolo.
LUISA: In questa trasformazione il lavoro è mutato molto, anche da un punto di vista attoriale: avere a contatto così ravvicinato il pubblico intorno all’azione permette agli spettatori di avere diversi punti di vista su quello che accade, perché ognuno in qualche modo coglie un’espressione, un dettaglio, di ciascuno degli attori in scena. Nessuno ha mai la visione totale di quello che accade, che in qualche modo è quello che succede anche ai personaggi della pièce.
SIMONA: E nella vita.
LUISA: Questo ci sembrava molto interessante e ovviamente ha portato noi attori ad avere una marcia in più, ovvero la possibilità di relazionarci fra di noi nello stesso modo in cui ci relazioniamo con il pubblico. In questo modo possiamo recitare senza dover amplificare, senza dover insistere su alcune azioni, su alcuni gesti, a causa magari della lontananza che a volte c’è nei teatri tra palco e platea: questo ci consente di lavorare davvero sul dettaglio. Questo è un testo per noi immenso, è un testo che era già stato tradotto e che noi abbiamo in qualche modo ritradotto, nel senso che ne abbiamo analizzato molto bene il linguaggio: gli spettatori se ne accorgeranno, il punto non è solo quello che viene detto, ma come viene detto. Potremmo sintetizzare dicendo che la storia racconta di un fratello/figliol prodigo che torna dopo circa 15 anni d’assenza per rivelare una cosa alla propria famiglia. Trova una famiglia che in qualche modo sembra essere rimasta congelata a 15 anni prima, una famiglia lasciata e ritrovata nello stesso modo, soprattutto nel male. E quindi l’esigenza che ogni personaggio ha di parlare con Louis, con questo figlio che ritorna, è un’esigenza fortissima: è come togliere un tappo a un lavandino e lasciar scorrere tutto in un vortice fatto di incisi, di tentativi di spiegarsi, di andare in fondo. Il personaggio principale, Louis, ascolta molto e che non riesce a dire: avrebbe moltissimo da dire, ma non ce la fa.
L’ultima collaborazione tra le vostre compagnie è stata Il migliore dei mondi possibili, uno spettacolo liberamente ispirato al Candido di Voltaire. Anche se Lagarce era già presente nella vostra storia comune, tornare con un testo di un autore francese, anche se ovviamente di diversi secoli dopo, è stato casuale?
SIMONA: Sì, è stato casuale.
LUISA: Diciamo che da parte mia c’è un grande amore per la Francia e per la lingua francese. Però non sono io che comando, ed è stata davvero una scelta casuale. Diciamo che io sono molto contenta che sia successo, ma sono stati due innamoramenti abbastanza indipendenti, e infatti anche i risultati sono molto diversi.
SIMONA: Gli spettacoli sono completamente diversi.
Quindi tra i due spettacoli non ci sono legami di alcun tipo…
SIMONA: No, sia nella messa in scena, sia nel lavoro degli attori, sia nella tematica, sono proprio mondi completamente diversi. Mentre in Giusto la fine del mondo si esplora appunto la tematica della famiglia, dei legami, delle relazioni interpersonali, in Il migliore dei mondi possibili si lavora più in apertura su un discorso politico, etico, e quindi completamente diverso. E anche la modalità di recitazione è del tutto differente: mentre qua gli attori, come diceva Luisa, sono spiati dal pubblico che li circonda e ne osserva lo sguardo, il gesto, la caduta emozionale, in Il migliore dei mondi possibili il pubblico era lontano, anzi, era addirittura immaginato: c’era un doppio pubblico, uno reale e uno che non esisteva.
LUISA: Tra l’altro la primissima forma de Il migliore dei mondi possibili l’abbiamo presentata sempre qui, esattamente in questa sala… e oggi vederla così, con un allestimento completamente diverso rispetto a quello del Candido, per noi è un ritorno simbolico.
SIMONA: È davvero un bell’augurio.
Simona, ho visto che tu hai lavorato per diverso tempo con Barbara Nativi al Festival Intercity di Sesto Fiorentino, il posto dove la drammaturgia di Lagarce è sbarcata in Italia. Lagarce è tradotto in Italia già dal 2009, e un paio di anni fa è uscito nelle sale italiane anche il film È solo la fine del mondo diretto da Xavier Dolan; cosa cambia nel presentare Lagarce adesso rispetto agli inizi, quando in Italia era un autore del tutto sconosciuto?
SIMONA: Purtroppo non è ancora così noto in Italia! Mentre in Francia è un autore non solo rappresentato, ma addirittura studiato a scuola, qui in Italia Lagarce è solo un pochino più conosciuto rispetto agli inizi, ma non tantissimo. Quando nel 1998 ho lavorato con Barbara, lei ha tradotto in collaborazione con Francesca Moccagatta e Renata Palminiello il primo Le regole del saper vivere, che io ho portato in scena, un testo molto ironico. Lagarce è molto ironico nella scrittura, anche se apparentemente non sembra: la sua capacità, anche ellittica, di lavorare sulla lingua porta a tirar fuori un’ironia spesso leggera. Adesso sono noti anche altri testi, e il film di Dolan ha certamente contribuito, però Lagarce non è ancora un autore classico.
LUISA: In Italia c’è solo un’altra versione teatrale di Giusto la fine del mondo, ed è quella che ha fatto Luca Ronconi.
Cambiando argomento, com’è lavorare in coproduzione? Che dinamiche si creano tra le vostre due compagnie e in che modo vi dividete i compiti?
LUISA: È la cosa migliore che ci potesse capitare, su vari livelli: innanzitutto, in questo momento di contrazione non solo economica, ma anche culturale, contrazione di spazi e di possibilità, unire le forze è una risposta chiara e convincente. Ma molto spesso non funziona, nel senso che sapere con chi condividere una casa non è scontato. Nel nostro caso ha funzionato molto bene, tanto che siamo già alla quarta coproduzione, quella che debutterà fra pochi giorni a Kilowatt Festival. Murmuris, che io qui rappresento, è una compagnia molto giovane: non perché siamo noi ad essere giovani, ma perché ha dieci anni di vita e ancora tante cose da imparare, sia da un punto di vista artistico che da un punto di vista organizzativo e amministrativo, cioè di sussistenza nel mercato. Murmuris ha avuto la fortuna di incontrare una compagnia come AttoDue, che invece ha una storia di più di trent’anni, fatta di tante produzioni e di tanti incontri. Lo dico io, poi magari loro si scherniranno, ma di fatto è una compagnia che ha influenzato il panorama nazionale, per le cose che ha portato in Italia, per come ha affrontato le produzioni e per come è stata un segno e un modello di compagnia. Quindi dal mio punto di vista è stata, è e sarà per sempre un’occasione per imparare e per sentirmi anche protetta e aiutata ad andare avanti nel lavoro. Per loro credo sia un’occasione di incontro e di sostegno reciproco: di fatto oggi noi facciamo un po’ fatica a immaginare una produzione che non sia una coproduzione.
SIMONA: Silvano Panichi ha suggerito questo incontro, abbiamo cominciato a collaborare da Medea/Mayday e, come diceva Luisa, il 16 luglio debuttiamo con la prossima coproduzione. Diciamo che è stato un matrimonio che per me è fondato sugli stessi gusti artistici e sulla voglia di fare le stesse cose in scena. Non abbiamo divergenze da questo punto di vista, ed è una cosa fondamentale, perché ci troviamo molto d’accordo, davvero moltissimo. Perché tutto si può superare, ma vedere lo stesso puntino è importantissimo e non è nemmeno così scontato al giorno d’oggi.
Vi faccio l’ultima domanda: visto che siete tutt’altro che dei nuovi arrivati a Inequilibrio, come descrivereste il festival in poche parole?
SIMONA: È assolutamente stimolante, si incontrano artisti, si vanno a vedere spettacoli di altre compagnie. Inequilibrio presenta sempre cose belle… mi sembra di dire solo cose ovvie!
LUISA: Contemporaneità, ricerca e soprattutto, una cosa per me fondamentale, è che si tratta di un festival che affronta fortemente il tema della residenza, dello stare e del passare. Attraversare questo posto, come anche noi abbiamo avuto occasione di fare, e avere la possibilità di restare in residenza non è scontato oggi: significa poterci stare per un po’, ma anche avere l’opportunità di passare e vedere cosa stanno facendo gli altri.
SIMONA: Infatti è la seconda volta che noi siamo qua e abbiamo la possibilità di venire, fare delle prove, dormire. Non è come in altri festival dove arriviamo la mattina e ripartiamo la sera non appena è finito lo spettacolo: è molto diverso.