Antonella Questa: la pedagogia nera in forma di fiaba
Intervista di Francesca Montagni
Tra le molte prime nazionali che hanno arricchito il programma di Inequilibrio XXI, una particolarmente attesa è stata quella di Infanzia felice, l’ultimo spettacolo di Antonella Questa. Avevamo già avuto modo di seguire da vicino la gestazione di questo spettacolo, preparato e perfezionato durante varie residenze al Castello Pasquini, e ne avevamo parlato con Antonella qui in un’altra intervista. Oggi la incontriamo di nuovo, alla vigilia di questo attesissimo debutto, per fare il punto della situazione e scoprire in anteprima qualche dettaglio in più sullo spettacolo.
Nell’intervista che abbiamo fatto a marzo avevi iniziato a parlare dello spettacolo che stavi preparando mentre eri qui in residenza, e che domani sera debutta proprio qui a InequilibrioXXI. In che modo si è evoluto lo spettacolo in questi mesi? Ha preso una piega che magari non ti saresti aspettata, oppure è filato esattamente nella direzione che avevi immaginato.
ANTONELLA: Io sapevo quello di cui volevo parlare, ovvero il tema della pedagogia nera che stavo studiando su testi di vari autori, la Rutschky, Alice Miller, Antonella Lia e tanti altri. Dopo il nostro incontro ho sfruttato la residenza a Armunia soprattutto per creare personaggi, ho cercato di sollecitare la storia. Più o meno a febbraio ho deciso di adottare la formula narrativa della fiaba per raccontare la pedagogia nera oggi, e poi sono nati dei personaggi che mi hanno anche molto sorpresa, come il gatto parlante. È stato necessario studiare in modo approfondito la struttura della fiaba e le sue varie funzioni: c’è quindi l’eroe, il momento dell’equilibrio, la rottura dell’equilibrio, il mandante, l’aiutante, l’antieroe, tutta una serie di passaggi che Propp indica e spiega molto bene. Il passaggio successivo è stato proprio andare a scavare in profondità, seguire questa storia e andarla a raccontare. Si comincia il 1 febbraio, apparentemente un giorno come un altro, in realtà è il giorno in cui iniziano le iscrizioni online: si parte quindi con la corsa al mantenimento di un certo numero di studenti per evitare l’accorpamento, sommo terrore dei presidi che temono di finire a fare i “reggenti” dovendosi spostare su e giù tra varie scuole. Ho seguito la storia, le ho dato un inizio, ho messo dei personaggi insieme: si parte da una maestra, e poi una preside, la mamma di uno dei bambini tremendi della classe, una casa famiglia da cui proviene una bambina che verrà aggredita, una nonna, il direttore della casa famiglia… insomma, ci sono un po’ di cose che sono ovviamente arrivate e che presenterò domani sera. Diciamo che rispetto alla scorsa intervista le cose sono cambiate moltissimo. Sono andata nelle scuole, ho conosciuto presidi, ho intervistato delle maestre, ho potuto incontrare dei bambini, ho potuto capire cosa sono questi bambini “certificati”…
Cioè?
I bambini BES in cui rientrano tutta una serie di casi: se sei ipercinetico, se sei dislessico, i vari disturbi dell’apprendimento… sigle che ai nostri tempi ovviamente non esistevano, per cui io sono rimasta un po’ sorpresa, mi sono informata.
Perché parlare di un argomento così duro e impegnativo scegliendo gli stilemi della fiaba? Di solito si immagina la fiaba come qualcosa di delicato, di più semplice. C’è da parte tua un desiderio di semplificare una materia così enorme e complessa?
ANTONELLA: Hai usato delle parole molto giuste. Intanto non si tratta di una favola, bensì di una fiaba: la favola di solito è molto breve e i protagonisti sono animali, mentre la fiaba vede anche elementi magici e c’è sempre un lieto fine. Esistono fiabe che finiscono male, ma sono molto rare. Ho scelto questa forma narrativa anche perché nasce innanzitutto un racconto popolare, e perché spesso erano le donne a raccontarla, intorno al fuoco o nelle stalle. Ho trovato molto significativa questa dimensione del racconto. La fiaba permette anche di parlare di tanto tempo fa e di un paese lontano lontano, consentendo magari di allontanare una realtà che appartiene all’oggi e guardarla da un altro punto di vista. Dici un’altra cosa giusta, e cioè che attraverso la fiaba c’è una “semplificazione”: la materia è talmente complessa e delicata, il tabù dell’educazione è ancora talmente presente, che per parlarne è bene allontanarla un attimo e guardarla da un altro punto di vista. La fiaba mi è sembrata il modo più giusto per provare a immergersi in una dimensione quasi surreale, quella della scuola di oggi. Per me che ho finito la scuola diversi decenni fa e sapevo poco o niente della scuola di oggi, c’è voluto un bel po’ per riuscire a capire la situazione: mi ci sono immersa il più possibile, ho studiato, ho intervistato, ho cercato di capire anche che cosa dice la legislazione in merito, come funzionano i concorsi… ci sono tutta una serie di fattori che fanno sì che l’insegnante sia il primo a rimetterci, perché il genitore e il bambino hanno la precedenza, perché bisogna avere quel numero di allievi, perché la scuola è più un’azienda che altro. Ci sono stati davvero molti cambiamenti. Però raccontare tutto questo in forma di fiaba permette una leggerezza che non credo sarei riuscita a trasmettere se avessi parlato come negli altri miei spettacoli, in modo più diretto.
Ho visto che da Pedagogia nera della Rutschky è stato tratto il film Il nastro bianco di Michael Haneke, che è stupendo ma terrificante…
ANTONELLA: A proposito de Il nastro bianco: se ci si fa caso, anche lì il tema è talmente caldo che Haneke lo svolge in modo molto particolare. Decide infatti di far narrare gli accadimenti dal maestro del villaggio in cui si svolge la vicenda, e il maestro dice “Mi sembra di ricordare… forse mi sbaglio…”. Mette diverse paia di guanti, Haneke. Se le ha messe lui, io obbligatoriamente devo mettere i guanti di ferro!
Ho trovato molto interessante che da uno stesso testo siano derivati due approcci così radicalmente opposti.
ANTONELLA: Bisogna anche dire che lui ha un’altra radice, che ha un rapporto differente con la pedagogia nera. Io sono comunque italiana: da noi la pedagogia nera è ed è stata presente, l’ho vissuta, l’ho subita, e la vedo ancora in modo chiarissimo sui bambini di oggi.
La mia domanda successiva era proprio se credevi o meno che oggi la pedagogia nera fosse stata almeno in parte soppiantata, quantomeno a livello istituzionale: l’insegnante oggi ha molta meno libertà (e questo in parte è un bene), deve stare sempre molto attento a cosa dice e a cosa fa, per evitare che i genitori chiamino l’avvocato e possano arrivare ricorsi e licenziamenti.
ANTONELLA: Non credo che sia poi così vero: di recente mi sono trovata a intervistare una maestra, una maestra da libro Cuore, di quelle che dedicano la vita a questi bambini. Mi ha raccontato abbastanza sconvolta che un’altra maestra era arrivata in quei giorni ad affiancare il lavoro suo e di un’altra collega. Lei ha capito che stava succedendo qualcosa in quella classe, ha capito che i suoi allievi non si comportavano normalmente. Perché attenzione, i bambini non parlano; anche se hanno paura e viene usata una violenza contro di loro, non dicono cos’hanno, neanche se a chiederglielo è la loro maestra del cuore. Infatti i bambini non parlavano, e lei con un escamotage ha beccato questa famosa maestra che picchiava i bambini, umiliandone uno, mentre sulla lavagna campeggiava il famoso BUONI/CATTIVI, che è una cosa che teoricamente non succede più.
Da cosa credi che dipenda tutto questo?
ANTONELLA: Il problema non dipende direttamente né dagli insegnanti né dai genitori, dal mio punto di vista. Il problema è in una serie di dogmi che abbiamo assorbito, che hanno fatto sì che le emozioni nelle persone fossero represse. Chi più chi meno, attenzione, perché ovviamente non è che siamo tutti finiti in un vortice di ceffoni e violenze. Però bene o male il mood era sempre “non sta bene arrabbiarsi, guarda quanto sei brutto quando piangi, smettila di fare i capricci”. La base della pedagogia nera consiste nel reprimere le emozioni, nel non dare modo al bambino di dare un nome a quelle emozioni, che fanno parte di noi e ci sono molto utili: la rabbia ti permette di difenderti, di scappare, di salvarti o di salvare qualcun altro. Il problema è lì, la pedagogia nera c’è ancora perché in nome dell’educazione si è permesso per secoli di reprimere le emozioni dei bambini. Bambini che poi diventano adulti, dimenticano, preferiscono scusare gli adulti precedenti e ingoiare la propria rabbia, che poi però un giorno o l’altro riscappa fuori. Quindi o vai verso l’autodistruzione, o verso la distruzione degli altri. È sempre così, te la rifai con il bambino: “ma come, tu piangi mentre io non ho avuto il diritto di farlo? Vergognati, non si fa”. È questo il meccanismo, un meccanismo inconscio che noi assorbiamo, perché quando si è piccoli non si hanno gli strumenti per difendersi. Quando nasci sei veramente perfetto da un punto di vista del cuore, sei un esserino che viene al mondo e ama le due persone che gli hanno dato la vita, ma poi assorbi quello che ti viene dato, e lì dipende da dove capiti.
Intravedi uno spiraglio di speranza in questo senso? Credi sia possibile spezzare questa catena e avere abbastanza autoconsapevolezza da non ripetere gli stessi schemi a cui si è stati sottoposti?
ANTONELLA: Assolutamente sì, altrimenti non avrei fatto lo spettacolo! Infanzia felice, con la sua struttura di fiaba e il suo lieto fine, rispecchia perfettamente la struttura narrativa di tutti gli altri miei spettacoli. Io ho sempre un happy end nei miei spettacoli, da Vecchia sarai tu! a Stasera ovulo (che non ho scritto io, ma che ho scelto con il cuore e che mi rispecchia totalmente), da Svergognata a Un sacchetto d’amore. Tutti i miei spettacoli hanno un happy end, perché io credo profondamente che abbiamo tutti la possibilità di acquisire consapevolezza: abbiamo una parte buonissima, probabilmente molto nascosta o repressa anche quella, che magari chiede di venire fuori. Ci sono le possibilità di farla venire fuori, io questo lo mostro chiaramente nello spettacolo; si tratta però di qualcosa che ho imparato e osservato da chi fa questo di mestiere, intendiamoci.
Serve quindi anche fare un percorso su se stessi?
ANTONELLA: Sicuramente, ma più che altro si tratta proprio di un ascolto di sé. Tempo fa ho scoperto questo blog, www.nontogliermiilsorriso.org, dove si possono leggere le storie scritte in prima persona di genitori che se ne vogliono di alzare la voce o di far partire un ceffone al bambino. Non è che tutti gli adulti sono dei pazzi scriteriati che ammazzano i figli di botte o di insulti, anzi ce ne sono un sacco che crescono i figli in maniera serena ed equilibrata, probabilmente perché anche loro sono cresciuti in un clima di ascolto. È proprio un discorso di ascolto di sé, e quindi anche degli altri. Io mi sono servita di alcuni aneddoti, vissuti in prima persona o trovati durante le mie ricerche, per capire che spesso noi trattiamo duramente i bambini, mentre tra adulti non siamo così. Tu punisci tuo figlio perché ha preso un brutto voto a scuola; però, se a te succede una cosa del genere sul lavoro, non è che tuo marito ti punisce! Anzi, hai la possibilità di parlarne, di sfogarti… questa cosa però ai bambini non la permettiamo, come mai? Già soltanto facendo una piccola riflessione di questo genere, ti rendi conto che c’è un altro punto di vista. A me interessa dare spazio a questo punto di vista, aprire una riflessione, un confronto. Non insegno assolutamente niente a nessuno, non posso permettermelo, non sono un’esperta in questo campo, vorrei che questo fosse ben chiaro. È proprio un desiderio di sollevare un punto di vista. Prima di immergermi in questo tema, io ero proprio come la maestra Caramella, la protagonista del mio spettacolo: quindi ero una un po’ stronza con i bambini, una di quelle che vede i bambini che strillano e si lamenta. Andando avanti con questo lavoro ho capito molte cose: il bambino è un bambino, ha solo quelle possibilità di esprimersi. I capricci non esistono, esistono dei bisogni. Anch’io ho avuto dei bisogni che sono stati scambiati per capricci, ma non ne voglio certo ai miei genitori, che per primi hanno subito la stessa cosa. Ma non era colpa neanche dei nonni, che allo stesso modo hanno subito lo stesso trattamento, e così via. Dobbiamo allargare lo sguardo, compatirci un po’ tutti e scegliere di ricominciare. E ricominciamo proprio dai bambini di oggi. Per questo il mio spettacolo è una fiaba per adulti, non è uno spettacolo per bambini. È uno spettacolo per gli adulti, cioè per i vecchi bambini che siamo stati, per dirci: “Tiriamo un bel respiro e giriamo pagina!”.
Quindi è un modo anche per perdonare e andare avanti?
ANTONELLA: Certo, perché poi il perdono alla fine che cos’è? È il lasciare andare. Noi dobbiamo lasciare andare, dobbiamo innanzitutto tirare fuori la rabbia che abbiamo represso, perché è una rabbia giusta e sana. Ad esempio, i bambini sfogano la rabbia col disegno. Qualsiasi forma d’arte ti può aiutare a sfogare la rabbia: la scrittura, la pittura, la danza, lo sport… Respirare, prendersi quei cinque minuti per se stessi, c’è tutta una serie di “aiutini” possibili in questo senso. Ovviamente nello spettacolo, all’interno della fiaba, l’aiutino è qualcosa di magico. In realtà l’aiutino magico ce l’abbiamo sotto gli occhi. Basta veramente poco, aprire gli occhi e guardare il mondo in un altro modo
Volevo parlare a proposito delle “figure educative in guerra” che tu menzioni anche nella presentazione dello spettacolo. Fino a un certo punto genitori e insegnanti costituivano un corpo unico e terrificante, contro cui il bambino si trovava da solo e sapeva di non poter sgarrare perché non avrebbe trovato comprensione da nessuna delle due parti. Ora invece c’è un fenomeno relativamente recente per cui invece queste due figure educative non hanno fiducia l’una nell’operato dell’altra. Mi chiedevo che ripercussioni potesse avere per un bambino questo trovarsi tra l’incudine e il martello. Si potrebbe immaginare che almeno da parte dei genitori ci sia oggi più ascolto in questo senso, invece sembra essere più che altro un diverso tipo di solitudine…
ANTONELLA: Io nello spettacolo faccio vedere dei bambini che non conoscono nessuna autorità tranne la propria, che non rispettano le regole, che si sentono il centro del mondo, che fanno vergognare mamma e papà, e che sono causa di vere guerre tra genitori e insegnanti che si rinfacciano le radici di quella maleducazione. È importante considerare anche il contesto in cui viviamo anche oggi: una società estremamente stressante, sempre di corsa, dove tu per prima non hai modo di stare con te stessa e ascoltarti. Quindi c’è una grandissima mancanza di ascolto fra tutti, un po’ dovuta al loop della società della quale viviamo, sempre più performante, che ci chiede molto. Ci sentiamo estremamente inadeguati, perciò il bambino viene massacrato. Massacrato tra virgolette, non c’è bisogno di ceffoni, è soprattutto l’umiliazione che ti massacra interiormente, il tuo senso di inadeguatezza. Nello spettacolo vedremo la nonna di Lollo criticare ogni cosa. “Eh ma guarda che brutto questo disegno, non si capisce niente”. Il giudizio continuo: non vai mai bene, non la fai mai giusta, fai piangere mamma e papà, guarda come è bravo quell’altro bambino. Non c’è bisogno di menare, queste sono cose ancora peggiori e purtroppo ci sono ancora. In generale è veramente un problema di mancanza di ascolto, di mancanza di empatia. Ma non puoi avere empatia se non ascolti per primo te stesso, è automatico. Come puoi capire o stare in ascolto di chi hai di fronte, se non riesci a farlo con te stesso? Questo discorso della relazione è un po’ il letimotiv di tutti i miei spettacoli. In questo spettacolo vedremo gli adulti, la mancanza totale di ascolto, questo bisogno d’amore così diffuso… è proprio mancanza di ascolto: chi si mente, chi non si dice le cose, certe cose non vanno dette. In fin dei conti la pedagogia nera ci ha tramandato proprio questo, l’omertà. La mafia è un ottimo esempio di pedagogia nera, se ne parla nei libri che ho studiato per questo spettacolo. Me ne aveva parlato il professor Perticari, che ha scritto l’introduzione per Pedagogia nera, diceva di andare a vedere l’intervista fatta al figlio di Totò Riina. Noi siamo quella roba lì, anche se ovviamente qui si parla di un caso estremo. Però il fulcro della questione è questo, le cose non escono dalla famiglia, certe cose non si dicono, non si fanno. Si mente, “non dirlo a tuo fratello, non dirlo alla mamma”, e alla fine menti, menti… E la gente si mente continuamente, mentiamo sempre, sia a noi stessi che agli altri. Nello spettacolo ci sarà anche il padre di Lollo, che farà un piccolo cameo: anche quello ti racconta tanto, e ti dice di una coppia che non si parla. E i figli captano tutto, assorbono tutto, i nostri malesseri e le nostre tensioni, più sono piccoli e più assorbono, è una cosa impressionante.
Mi ha incuriosito molto il fatto che non sia la prima volta che nello strutturare il tuo lavoro tu ricorri al mezzo dell’intervista. Oltre allo studiare testi ed effettuare ricerche attraverso i libri, affondare le radici nell’esperienza diretta in che modo influisce sul tuo lavoro e quanta parte ha?
ANTONELLA: Per me è una cartina al tornasole, nel senso che io magari ho un’immagine, una curiosità, e comincio a studiare. Quando trovo il filone giusto, le interviste arrivano in seconda battuta: prima studio molto, e poi vado a verificare sul campo. In questo caso ho intervistato maestri, maestre, presidi, genitori, insegnanti delle medie, e poi tutti mi dicevano la stessa cosa, persino i genitori mi dicevano “La scuola è un disastro da quando hanno fatto entrare i genitori a scuola”. E poi professori, psicologi, mi è capitata anche una classe di bambini: intervistando la maestra, lei mi ha proposto di andare in classe e io ne ho approfittato. Ho parlato con i bambini, che a scuola facevano un laboratorio sulle emozioni, una cosa molto bella. E quindi ho chiesto loro: “Ah sì, vi arrabbiate? E come mai?”, e la risposta di questi bambini di 8 anni era: “Perché non mi ascoltano”. E il fatto che il bambino non venga ascoltato è l’inizio di tutto, perché se tu non vieni ascoltato e non vieni accettato per quello che sei, poi trovi degli escamotage: o cerchi di essere quello che ti chiedono di essere, e quindi comunque non sei tu, oppure menti. Io mentivo. Cioè, tanto non va mai bene quello che faccio, come sono, cosa dico, quindi dicevo “Sì sì, guarda, faccio questo” e poi ovviamente raccontavo balle. Venivo beccata nel giro di un’ora, ero veramente una pessima mentitrice.
Domanda di rito: visto che comunque lo spettacolo è anche nato qui, durante le tue residenze qui a Castiglioncello, volevo chiederti di descrivere con parole tue che cosa è Inequilibrio per te e anche che cosa ha dato la residenza a questo lavoro in particolare.
ANTONELLA: Per quanto mi riguarda, il bello è stato poter incontrare dei giovani che erano qui in residenza e che mi mostravano il loro lavoro. È in questi momenti che ti dici “Porca miseria, che belle le giovani generazioni, con questi nuovi linguaggi! Che bello, dietro di noi sta arrivando il meglio!”. A Inequilibrio sono sempre venuta da spettatrice, quindi è anche un onore essere qui, sento proprio il peso di chiudere questo festival. Comunque per me resta una seconda casa: questo è un primo tassello, abbiamo già altri progetti per il futuro.