Ilaria Drago porta in scena Antigone per affrontare il concetto di migrazione
Intervista di Benedetta Pratelli
Abbiamo intervistato Ilaria Drago e la sua compagnia per parlare di MIGRAZIONI_CAMBIARE LA FINE | SENZA CONFINI ANTIGONE NON MUORE che debutterà il 19 giugno a InequilibrioXXI, In residenza a Castiglioncello gli artisti hanno lavorato per tre settimane intorno alla struttura in ferro di Mikulàs Rachlìk, vera protagonista della scena: un’opera viva che farà da sostegno coregrafico e drammaturgico a lavoro.
Partiamo subito dal vostro attuale progetto: raccontateci a che cosa state lavorando.
Ilaria Drago: Il titolo è molto lungo ma necessario perché contiene elementi fondamentali. Migrazioni perché parla di tutte le migrazioni che possiamo immaginare nel contemporaneo e anche nel passato, e allo stesso tempo di una migrazione dall’interno verso l’esterno o una migrazione che riguarda gli stati di coscienza, quindi in qualche modo una trasformazione. Senza confini perché in qualche modo per me abbatte dei confini: proprio Antigone dirà che “tutti i confini sono lunghe linee di sangue”, territori nati sulla morte delle persone e sulle guerre. L’idea è che probabilmente senza questi territori potrebbe esserci una vita migliore, forse diversa, con delle prospettive migliori.
Il lavoro nasce dalla suggestione di Antigone anche se parte dalla grotta quindi dal punto che noi non vediamo in Sofocle, perché lì Antigone viene incarcerata, sepolta viva e poi la vediamo riapparire in realtà ormai morta, invece qui l’idea è interrogarsi su che cosa succede all’interno della grotta: c’è un rivivere per lei tutto quanto ma anche comprendere tutto quello che è stato, che potrebbe essere e che sarà.
È uno spettacolo che parla di diritti umani, di guerre, di quello che significa umanamente la guerra, che cos’è. Cerchiamo di “velarlo” attraverso la poesia dello spettacolo per svelarlo e vederlo meglio, forse, con una lente di ingrandimento.
Paradossalmente la realtà è oggi velata dalla televisione, dunque tu hai sempre uno schermo ed è come se il virtuale non ti permettesse più di sentire l’umano. Parliamo quindi di migrazioni, di accoglienza, di amore in senso ampio. Facciamo un attraversamento su tutti i non visti, su tutti quelli che consideriamo di serie b: i carcerati, i torturati (di qualsiasi parte del mondo, non mi interessa la bandiera), fino ad arrivare alle donne e a tutto quello che sappiamo essere oggi violenza sulle donne. Come dice Antigone “di legge in legge di tempo in tempo”, è una cosa che sembra quasi infinita questa violenza e questo abuso del femminile, un non riconoscimento del femminile.
Attraversiamo questi temi e ci facciamo delle domande: esiste un linguaggio nuovo? Possiamo cambiare la fine? È veramente impossibile che si possa cambiare la fine? Davvero dobbiamo vivere nell’odio, nella paura, nel rancore, nell’omicidio, nella guerra?
Nei tuoi lavori la ripresa del mito è quasi una costante. Da cosa nasce questa necessità, il bisogno di attualizzare il mito o più in generale di portare nel presente storie mitiche?
Andrea Peracchi: Vorrei, se posso, rispondere io a questa domanda. Il discorso del mito e l’operazione che Ilaria fa su di esso sono note distintive del suo teatro. Ilaria, secondo me, riporta il mito non nell’attuale, nel contingente, ma lo riporta nel presente. Ne abbiamo un esempio con Giovanna D’Arco, con l’episodio delle Metamorfosi, Ecuba e Sirene, o in questo caso con Antigone. Ed è una straordinaria operazione culturale perché significa prendere il mito, che parla dei livelli archetipici, che parlano a 2000 anni fa come all’oggi, coglierne l’essenza e riportarla nel presente. Quindi non fa del mito una questione attuale, ma presente e dunque eterna. Questo è il lavoro di Ilaria ed è il dato invogliante per me, parlando come spettatore in primo luogo e poi come collaboratore.
Ilaria Drago: Io aggiungo che comunque il mio teatro non è solo questo, c’è anche per esempio Simone Weil, ci sono storie attuali, in cui è innestato un filo rosso di lavoro sul femminile che mi interessa molto. Certo mi interessa l’umanità: Antigone, che è la protagonista, in realtà è un archetipo. È un guardare all’umanità attraverso gli occhi di questo femminile che forse potrebbe avere uno sguardo diverso rispetto alla cultura patriarcale.
Sia attraverso il mito, la cui essenza non ha tempo, sia nelle cose attuali, il mio lavoro è rivolto all’umanità, alla società.
Il tuo linguaggio è stato definito “materico” e “sanguigno”, le scene dei tuoi spettacoli sembrano invece essere più essenziali. Come dialoga la parola con la scenografia?
Ilaria Drago: Nel caso di Antigone c’è questa struttura che è un opera d’arte di un grandissimo artista, Mikulàs Rachlìk, creata proprio per il mio lavoro. Lei, perchè io la sento molto viva, prende molte forme, da quella dura, così come si presenta, ferrigna, cattiva, diventando poi però anche un luogo dolce, quasi una culla, una grotta. A questo scopo interagiscono anche le luci di Max Mugnai e possiamo dire che la coreografia, il lavoro di movimento, il linguaggio, la drammaturgia e la scena è come se fossero un unico linguaggio poetico: avviene una sintesi. Mi piace molto lavorare anche per quadri, sono molto visionaria e mi piace lasciare che anche il pubblico crei: io do il mio quadro ma in realtà come un po’ in tutto lo spettacolo, non c’è sempre una risposta. Per esempio Simone Weil teoricamente è tutto parola, ma proprio attraverso la parola e la musica, puoi far si che il pubblico abbia il suo quadro, puoi creare ambienti emozionali.
Che cos’è per voi la residenza artistica? Come state vivendo quest’esperienza?
Ilaria Drago: La residenza è una cosa meravigliosa. Devo ringraziare Armunia per questa possibilità, che per me è preziosissima perché è il modo per tornare a un lavoro di bottega, a un lavoro che oggi sembra perso nelle continue produzioni: “devo produrre, devo fare, debuttare” e finisce così per perdersi il lavoro dettagliatissimo che noi facciamo per esempio con Cloud Coldy e che permette proprio di entrare nella materia. Con la struttura di Mikulàs non è possibile fare uno spettacolo e presentarsi sul posto una sola settimana prima, perché non te lo permette lei: lei ti sputa fuori, lei ha tutta una meccanica, una sua forza, ma la devi abitare perché se non la abiti rischi di farti male prima di tutto, devi entrare in contatto con lei.
Della residenza mi piace quindi questo cambiare la modalità di lavoro, perché siamo entrati in un ritmo commerciale e produttivo che secondo me con l’arte ha poco a che fare. In questo modo invece è come rientrare nelle vecchie botteghe dei maestri. Per esempio quando lavoravo con Leo De Berardinis siamo stati sei mesi-un anno a lavorare su uno spettacolo: ti alleni, provi, cambi…
la residenza è una bolla nella realtà
…questo è il suo senso e in questo caso specifico ha anche la funzione di mostra permanente, perché essendo un’opera d’arte abbiamo permesso alle persone di venire e di vedere il lavoro in corso come fosse appunto una mostra, però viva. Questo tra l’altro mi è capitato anche tanti anni fa in residenza con Achille Bonito Oliva in occasione di Giovanna D’Arco: è bello perché il lavoro assume un altro valore, puoi approfondire e hai altri tempi…
Claude Coldy: Per me la cosa interessante di questa accoglienza del pubblico è il concetto di migrazione. È interessante far vedere che qui c’è un lavoro, che oggi si fa molta fatica a fare: c’è un lavoro e dunque lo spettacolo è qualcosa che deve nascere, che richiede tempo. È sempre più difficile avere le condizioni di un tempo di lavoro, di un tempo di nascita, ed è curioso perché se guardiamo al privato e alla nascita degli esseri umani c’è sempre una maggiore industrializzazione: si chiudono le piccole strutture, si deve nascere velocemente, tutti uguali… dunque proprio in relazione a questo tema, che nel mondo moderno è messo molto in discussione, è appassionante poter avere queste condizioni di lavoro con degli artisti, perché si può fare un lavoro molto sereno, con cura, e osservare il progetto nella sua piena misura.
Io sono un coreografo e maestro di danza e le tecniche del movimento vanno a servire l’atto teatrale: il tempo permette agli artisti in scena di dedicarsi pienamente al corpo, di crearlo senza forzature.
Cosa vi aspettate dal debutto a Inequilibrio?
Ilaria Drago: Sarà una prima che nasce proprio per Inequilibrio e mi è piaciuto fare questo scambio, perché Armunia ha aperto questa porta e ho ritenuto bello e doveroso dedicarle la prima nazionale. Penso e spero che il festival avrà anche il ruolo di vetrina, cosa molto importante e soprattutto necessaria, e lo considero quindi anche un trampolino di lancio per questo lavoro, oltre che un’occasione di incontro con altri artisti, un momento di scambio bello.