Industria Indipendente ci racconta il proprio modo di fare arte oltre il teatro, portando la drammaturgia fuori dagli spazi conosciuti
Intervista di Benedetta Pratelli
Erika Z. Galli e Martina Ruggeri (ovvero la compagnia romana Industria Indipendente) hanno presentato ad Armunia un’apertura dedicata al loro nuovo lavoro “DUNNO – I don’t know” o meglio, come loro stesse dichiarano, hanno “mostrato e raccontato tutto quello che ruota intorno a un testo: le nostre pratiche drammaturgiche e la creazione di un immaginario ”.
Partiamo subito dal progetto a cui state lavorando in residenza ad Armunia: DUNNO – I don’t know.
Erika Z. Galli: Allora, cos’è Dunno? È un’altra dimensione spazio temporale. Stiamo cercando di immaginare altre possibilità e considerare corpi diversi e entità nomadi. Per il momento Dunno racchiude e unisce cinque esistenze accomunate dalla loro extra-ordinarietà. Il testo lo stiamo ancora costruendo, siamo alla progettazione delle fondamenta…
Leggendo la vostra biografia ho dedotto che non avete una formazione accademica, allo stesso tempo mi sembra di notare nel vostro lavoro una forte influenza di quella che è stata definita la terza ondata teatrale, quindi Motus, Fanny&Alexander ecc… Avete qualche compagnia di riferimento? Esempi artistici da cui siete partite?
Martina Ruggeri: Riferimenti ne abbiamo e ne continuiamo ad avere, cambiano e non sono quasi mai teatrali. Quello che ci interessa è guardare e attivare spazi di condivisione. Utilizziamo ogni strumento che abbiamo a disposizione per questo.
E: Sicuramente non è solo il teatro ad averci influenzato, ma anche molta letteratura, cinema e soprattutto arte contemporanea. Siamo state influenzate da tutto quello che abbiamo visto, vissuto e immaginato. Abbiamo seguito anche alcuni registi, ma quello che ci interessava era piuttosto vedere il modo in cui lavoravano, come utilizzavano il tempo, lo spazio in relazione al dentro e al fuori.
Ho visto infatti che non vi occupate soltanto di teatro, ma di attività anche molto diverse tra loro. Per esempio mi ha colpito il fatto che avete partecipato anche ad eventi in cui avete suonato alla consolle. Ma quindi come descrivereste il vostro lavoro? Se doveste spiegarci cosa fate?
M: Ce lo chiedono spesso: “ma che cavolo fate alla fine?”. Tutto quello di cui abbiamo bisogno e che possa creare legami.
In effetti è anche per questo che prima vi ho chiesto se avevate punti di riferimento artistici… per esempio già la Teddy Bear Company faceva le sue performance al Cocoricò…
E: Abbiamo iniziato con performance in discoteca in serate queer o in locali underground legati alla musica come il Fanfulla a Roma est. Questi spazi continuano ad essere i luoghi che frequentiamo, che sono pieni di inspirazione, di libertà e dunque di arte, insomma l’opposto degli stabili. Nel nostro ultimo lavoro ad esempio, che era qui al festival lo scorso anno, Lucifer, era in scena una delle migliori dj techno della scena romana, Lady Maru. Teatro è solo una parola, che in fin dei conti sta a significare una cosa antica e sacra: il luogo dello sguardo, dello scambio e dei respiri che riempiono gli spazi. Niente altro che questo.
E come siete arrivate invece a una ricerca drammaturgica più specifica?
E: Abbiamo sempre praticato
M: e diciamo che anche quando facciamo performance la drammaturgia è il nodo così come quando scriviamo un testo o facciamo qualsiasi altra cosa. Partire da un determinato punto per arrivare ad un altro e vedere dentro cosa accade o non accade. È un attraversamento.
E: Anche il modo in cui qualcuno decide di rappresentarsi nel mondo è drammaturgia, anche il modo in cui Martina è vestita e parla oggi lo è: la scelta che lei ha fatto qui e ora ti sta raccontando qualcosa di lei e questo qualcosa si rapporta con il fuori e agisce.
Come è per voi il lavoro di coppia su una stessa drammaturgia?
E: È qualcosa che abbiamo sempre fatto e che col tempo abbiamo imparato a gestire meglio… o peggio, dipende! Credo che abbiamo due linguaggi e visioni molto diversi, che ci permettono di creare un dialogo e un dissenso continui. Credo che la sua presenza all’interno della mia vita artistica e creativa determini poi quello che sono io, è come se lei andasse a compensare una parte di cui ho bisogno ma che non ho e che non vorrei mai ricreare posticciamente: non vorrei creare un fake di quello che non sono o di quello che non riesco ad essere. Diciamo che da lei prendo questo nutrimento: quando lavoriamo si crea la possibilità di unire le due componenti e di creare un nuovo linguaggio.
M: idem.
Come accennavate prima l’anno scorso avete presentato “Lucifer” in anteprima a Inequilibrio: come ve lo ricordate il festival? Me lo descrivereste in tre parole?
M: Questo è un luogo prezioso, dove le energie e le pratiche artistiche sono preservate e rispettate nella loro interezza e unicità ed è un aspetto molto raro in questo momento.
E: Per descrivere il festival a me viene in mente una sola parola: “FabioAngela”. Crediamo che la bellezza di questo festival dipenda soprattutto da chi lo fa esistere e chi si occupa di portare avanti un percorso e accompagnare i progetti artistici…
M: Abbiamo conosciuto Fabio mentre eravamo in residenza a Cascina e poi successivamente abbiamo incontrato anche Angela, che ha visto il lavoro: da lì anche Angela è diventata poi…. stavo per dire “un luogo” (ride)
Si capisco cosa intendi: sono diventati Armunia!
E: esatto!
Dunno parla di corpi-entità reali e immaginari
Dunno è l’attivazione di uno spazio possibile
Il termine rappresenta la forma di “I don’t Know”, dall’inglese non o so. Il termine esprime dubbio e confusione. E noi vogliamo spingere l’acceleratore su questo dubbio, su questa possibilità di vivere in un mondo incerto, liquido, labile, stratificato.
Un dubbio che vuole esprimere una confusione etimologica ovvero “mescolare con, fondersi”.
Avete presente l’arcobaleno? Proviamo a definirlo come un’immagine confusa (…).
Viviamo in un’epoca in cui la finzione, la natura, le macchine si mescolano creando un’iperrealtà degna di essere guardata e attraversata.
Ci sono infinite possibilità di sopravvivere.
La società stessa produce quello che siamo e allo stesso tempo nasconde o condanna quello che qualcuno osa essere o diventare.
Abbiamo il dovere di allenarci a questa confusione.