Simone Zambelli, in residenza ad Armunia, racconta il suo nuovo progetto: tra danza e teatro alla scoperta dei propri ricordi.
In un pomeriggio di un mercoledì uggioso una musica risuona nei corridoi di Castello Pasquini: è Simone Zambelli, giovanissimo artista in residenza (25 anni e una carriera iniziata da poco), che sta portando avanti le sue prove. Lo interrompo per fargli alcune domande ed esordisce con “ok, facciamola, così me la levo subito”. Capisco che deve essere una delle primissime interviste che fa e infatti in rete non ho trovato niente su di lui, se non il suo nome riportato in alcuni cast di tutto rispetto e il riferimento ad alcuni premi vinti, insomma una timida presenza ma che lascia ben sperare…
Questa intervista è quindi il risultato di una prima conoscenza con un artista tanto giovane quanto determinato, un danzatore (e non solo) per la prima volta alle prese con un lavoro tutto suo.
Partiamo subito dal progetto a cui stai lavorando qui in residenza, Non Ricordo…
Si, lo sto portando a compimento: inizialmente la parte portante era di 8 minuti, ho iniziato così. Tra l’altro 8 minuti realizzati in cucina, con mia madre che urlava…non avevo neanche un posto dove andare! Poi da lì invece sono andato a Torino e ho vinto questo piccolo festival coreografico [nel 2016 Zambelli vince il premio alla coreografia nella Rassegna “Solocoreografico”], quindi mi sono detto “cavolo, vediamo di allungarlo un po’ visto che ha funzionato” e così l’ho portato a 23 minuti, che componevano diciamo la parte centrale, andando così a concludere il progetto.
Quindi mi sono interrogato, avevo altre idee ancora da sviluppare: questo lavoro è fatto di ricordi e io ne avevo di precisi che dovevo far uscire fuori e così sto tirando le fila, grazie tra l’altro anche ad Armunia, che mi ha dato questa occasione di residenza. Andiamo avanti e vediamo che succede!
Ci racconti meglio di cosa parla?
E’ un viaggio nei ricordi, che poi in realtà ho 25 anni, uno potrebbe chiedersi “chissà che ricordi avrà”, però ho passato un periodo in cui guardavo tanto al passato e per niente al futuro. Non so…guardavo indietro. Sentivo proprio alcune mancanze: la mancanza di mia nonna (infatti c’è un pezzo sulla morte di mia nonna), la mancanza della paura del buio, che è una delle prime paure, e piano piano mi sono accorto che c’erano delle cose che ritornavano e le ho iniziate a buttare giù, ho iniziato a scrivere. Quando le ho riviste mi sono detto “ok, questa è danza: le devo mettere insieme e creare un filo conduttore per portarle in scena”. C’è tutto secondo me, c’è vita.
Quindi è nato un po’ per gioco, da questa mancanza del passato, da questa smania di ricordo. E più andavo avanti e più mi rendevo conto che non erano soltanto miei ricordi ma ricordi di un’intera generazione: tutti hanno avuto una perdita, tutti hanno avuto una paura, il primo amore o magari l’amore che non viene ricambiato…Mi sono proprio detto “questo spettacolo parla in generale, parla a tutti, perché non provare a portarlo in scena?”
Ho però un chiarimento da chiederti: nella presentazione del progetto si legge “testi di Carlo Galiero”, che significa?
La drammaturgia, i collegamenti e tutto il resto gli ho fatti io con l’aiuto drammaturgico della mia amica Arianna Mandolesi a cui chiedo sempre riferimenti, consigli ecc.. Carlo Galiero invece mi scrive i testi nel senso che provo proprio a parlare…
Ah quindi siamo nel teatro-danza!
Si, io non lo chiamo né teatrodanza né danza. Lo chiamo teatro in generale ma non sono attore: io tecnica vocale zero!
Beh, anche nei lavori del Balletto Civile, con cui adesso stai collaborando per Bad Lambs, è comunque presente la parola, quindi ti ci sei già relazionato in qualche modo…
Si ma infatti è anche per quello che ho iniziato a utilizzare la voce, perché comunque la sento una cosa molto naturale, è qualcosa che è successo: avevo bisogno proprio di parlare, di dire qualcosa, e in Non Ricordo ci provo insomma!
È la prima volta che lavori come coreografo mentre, come dicevamo, vanti già importanti collaborazioni con diverse compagnie: come ti trovi a lavorare in autonomia?
Lavorando come interprete o comunque mettendoti al servizio di qualcun’altro, conosci altre parti di te stesso, non sei te…qua invece sono proprio io che porto me, i miei ricordi, le mie cose… è molto più difficile quando stai da solo con te stesso. Una cosa è avere una persona esterna e avere un feedback, un’altra invece è lavorare così: ci sei solo tu e non sai se stai facendo la cosa giusta, se stai andando nella direzione giusta… tutta un’altra cosa, è difficile.
Visto che sei molto giovane e di te non sappiamo ancora quasi niente, ci parli della tua formazione? Hai studiato danza contemporanea all’Accademia Nazionale di Danza di Roma e ho letto che ti piace contaminare la danza con le arti marziali. Come ti è nato questo interesse?
Premetto che io ho iniziato danza a 14 anni ma poi è a 19 anni che ho veramente iniziato la carriera all’Accademia, il triennio contemporaneo, e quindi lezione tecnica, lezione di composizione e via dicendo… Poi però da lì sono uscito fuori e ho iniziato a viaggiare un pochettino, in realtà mi ero anche stancato di fare il danzatore, non era più quello che cercavo, quella verità. Non so, sono sempre stato alla ricerca della semplicità e della verità e la danza mi sembrava invece molto formale, bella da vedere però mancava di contenuto, non mi apparteneva: facevo molta danza concettuale, appunto danzavo, in maniera astratta, e in questo modo mi stancavo. E poi, non so, ho ritrovato nell’arte marziale una verità nella forma: io faccio quella forma perché veramente sto facendo qualcosa che mi serve; mi muovo in quel modo perché tu mi stai dando un attacco quindi io mi difendo; quella forma che faccio serve per incastrare il tuo braccio. Ho ritrovato proprio questa verità nell’essenzialità del movimento: un movimento essenziale e funzionale. Da lì ho ricominciato a danzare, a riprovarci, e scherzandoci su mi è andata abbastanza bene.
Questa ad Armunia è la prima residenza artistica che fai?
No, ne ho già fatte altre.
Come definiresti questo tipo di esperienze?
Un parto!
Un parto?
Un parto naturale…anzi forse un pre-parto perché non sai quello che andrà a nascere. Io per esempio adesso ho delle idee, ma non so che figlio arriverà, se arriverà dall’Africa, dalla Cina: è un figlio a sorpresa. Di solito i bambini sono tutti belli, no?! Però crescendo non si sa, se resterà carino o no… In questo lavoro, arrivato a questo punto, diciamo che ormai già ho partorito ma bisogna vedere cosa dovrà ancora succedere!
E vivere in residenza ti piace? È funzionale secondo te allo sviluppo di un progetto artistico
Secondo me si, perché comunque sei fuori dalle tue mura domestiche e dai problemi quotidiani. Vivi in un’atmosfera che è quasi eremitica: tu stai là, ti concentri sul tuo progetto ed è da lì che secondo me si parte. C’è molto ascolto interiore, personale, che è utile per poi portare comunque qualcosa fuori, a tutti gli altri.