Dialogo con Antonella Questa: pedagogia nera e nuova educazione
Intervista di Benedetta Prateri
Partendo dal testo di Katharina Rutschky, Pedagogia Nera, l’attrice e scrittrice Antonella Questa, ha iniziato a lavorare a un nuovo spettacolo e la sua residenza artistica a Castiglioncello è stata occasione, attraverso l’incontro “Verso un’infanzia felice?” che si è tenuto giovedì 22 Febbraio al Castello Pasquini, per confrontarsi con il pubblico, su un tema delicato come l’infanzia, la pedagogia e l’educazione.
Nell’intervista realizzata prima dell’incontro, Antonella mi ha raccontato da dove sia partito l’interesse per questo tema e la direzione che sta prendendo lo spettacolo dedicato.
Un’intervista interessante e divertente: tante curiosità e riflessioni, con un’artista capace di affrontare temi talvolta difficili, senza perdere l’ironia.
É la prima volta che tratti il tema dell’infanzia in un tuo lavoro, come ti ci sei avvicinata?
È vero, tra l’altro io non faccio neanche spettacoli per bambini e nemmeno questo lo sarà: sarà piuttosto uno spettacolo per salvare i bambini, salvando gli adulti, che a loro volta lo sono stati.
A me è quel bambino che interessa, quello diventato adulto.
Io per gli spettacoli parto dalle immagini e in questo caso avevo questa immagine di un cimitero, che non c’entrerà al momento niente, tra l’altro, con lo spettacolo, però ho iniziato a farmi delle domande, a riflettere, e sono arrivata all’idea di menzogna. Poi chiedendo a delle amiche, una di esse, che fa la psicologa, è rimasta entusiasta della mia intuizione e mi ha detto “ah guarda se vai sul segreto di famiglia scopri un mondo”. Da lì, cominciando poi a chiedere alle bibliotecarie, sono arrivata ai libri di Antonella Lia [sul tavolo mi indica “Abitare la menzogna”], che è una psicologa di Napoli. Lei lavora a contatto con bambini che vivono in situazioni molto difficili e attraverso i suoi testi ho scoperto le riflessioni di Alice Miller e tutta la teoria della pedagogia nera, ampiamente spiegata nel grande tomo di Katharina Rutschky [Pedagogia nera. Fonti storiche dell’educazione civile]. Quindi dicevamo, la menzogna: come mai mentiamo? Come mai viviamo nella menzogna? Ai bambini, per esempio, diciamo sempre che non si devono dire bugie e poi noi siamo prontissimi a mentire a noi stessi e agli altri senza ritegno alcuno e spesso anche su cose molto gravi. Rutschky ha raccolto tutta una serie di estratti da manuali e saggi, usciti tra il 1600 e il 1920, di pedagogia e di educazione, in cui il leitmotiv è che il bambino di base nasce cattivo, nasce sbagliato e va represso. Per esempio, se piange devi stare attento perché significa che ha un interesse; non deve essere viziato, coccolato; va lasciato piangere, picchiato, manipolato.
Insomma tutta una serie di robe fantastiche, che i nostri avi, bisnonni, nonni, genitori, ma anche noi abbiamo avuto la “fortuna” di assaporare. Nel saggio della Rutschky ci sono tutti i consigli e tutti gli studi fatti su come deve essere a scuola, la classe: il maestro deve stare sulla pedana. Oggi per fortuna questo accade raramente ma ancora ai miei tempi, i maestri stavano sulla pedana per avere una visione d’insieme. Le lezioni dovevano essere molto frontali e i bambini dovevano essere separati: addirittura ci sono disegni su banchi costruiti quasi come cellette, in modo tale che il bambino possa assumere una visione frontale solo sul maestro alla lavagna, ma non vedere e non toccare, soprattutto, gli altri bambini. Poi, ancora, c’è tutto il discorso del corpo, la masturbazione, il fatto che non bisogna accavallare le gambe, non bisogna dormire insieme e nel caso si deve indossare il pigiama e così via. Questo libro, tra l’altro, ha ispirato il regista Michael Haneke per il film Il nastro bianco, infatti la foto di copertina di questa edizione è tratta proprio dal film. Se uno vede quel film capisce di cosa stiamo parlando. Attraverso la pedagogia nera Alice Miller e tutti quelli che hanno potuto studiare questo tema, hanno spiegato il perché del nazismo, da dove nasce, e perché Adolf Hitler è diventato Adolf Hitler, o successivamente anche il perché delle Christiane F. e dell’autodistruzione giovanile attraverso le droghe. Il bambino che viene stroncato proprio nella sua emozione e non può esprimere quello che sente, che sia dolore, rabbia, sogno, il bambino che non è minimamente ascoltato, quando diventa adulto come reagisce? In Hitler e in Christian F. abbiamo i due casi limite. Ma io mi sono chiesta: e oggi? Oggi che abbiamo bullismo, bambini anche molto piccoli che ne aggrediscono altri…
Infatti tu hai parlato di una società violenta, riferendoti anche all’oggi.
Eh sì, anzi, dove ci giriamo ci sono notizie di questo tipo. Voglio dire, insomma, cosa succede oggi? Nella scuola e nella famiglia. E perché abbiamo questi bambini così capricciosi, violenti, viziati, perché esistono i cosidetti “bamboccioni”?
Il libro della Rutschky è del 1977. Può darsi che in qualche modo sia legato alla contestazione degli anni Sessanta e Settanta? Un saggio, cioè, che deriva proprio da quel tipo di contestazione, dove la cultura dei padri viene osservata con occhi nuovi. Secondo te quanto ha influito quel tipo di contestazione sull’educazione data ai bambini oggi?
Mi spiego meglio: l’educazione molto meno restrittiva che troviamo oggi è secondo te figlia in negativo della libertà che è stata cercata in quegli anni?
È possibile. In realtà i miei genitori, benché fossero giovani nel ’68, hanno abbracciato ancora queste teorie, quelle cioè della pedagogia nera. Ci può essere sicuramente un po’ di tutto. Secondo me si è più che altro acuita una certa fragilità delle persone. È una cosa che viene fuori spesso, quella di questi genitori che lasciano molto liberi i figli, che delegano loro scelte: andiamo qui? facciamo questo? Vuoi fare quello?
Forse, credendo di fare bene, in realtà creano un grosso problema sul bambino, perché così si sente investito da responsabilità che non deve avere, che non può avere e non sa come gestire. Chi lo sa, può essere una deriva, certo, di quelle libertà…
Da una parte è più rispettata ma forse anche più violenta.
Assolutamente. Quello su cui mi piace riflettere è la violenza psicologica, quella più infima, subdola, di cui non ci rendiamo conto e che viviamo così. “Ma figurati se io…”, “io mio figlio non lo tocco mai”, si sente sempre dire, no?! Però quando arrivi a casa cosa fai? Cosa gli dici? Come gli parli? Lo ascolti? Lo guardi? E se tuo figlio ha picchiato un compagno, cosa fai? Vai a picchiar la maestra? Perché non gli chiedi come mai ha picchiato il compagno, cosa gli manca?
Insomma è un po’ complessa la cosa, e non sta a noi giudicare. Però siamo veramente figli di questa pedagogia nera, sbagliata, e c’è un modo per liberarsene. Perché poi ovviamente l’amore è il veicolo, l’assoluzione, sempre, no?! Allora dobbiamo chiederci come lo tiriamo fuori? dove lo troviamo? come rimediamo?
Passando nello specifico allo spettacolo su cui stai lavorando: in tutti i tuoi spettacoli la coreografia ha un ruolo molto importante. Sarà presente anche qui?
Assolutamente. É già prevista una sedia, la scrivania messa così, io che vado su e giu…
La mia attenzione alla coreografia la spiego così: probabilmente io da bambina,volevo fare la ballerina, i miei non mi hanno mai fatto fare nessun tipo di corso di questo tipo e allora questa frustrazione la sfogo così! In realtà io vivo tra Francia e Italia e in Francia tanti anni fa la mia carissima amica Magali Bouze, che è coreografa e con la quale costruisco i miei spettacoli, mi invitò a una lettura di uno spettacolo di prosa, di cui lei aveva curato la coreografia. Quando parlo di coreografia ovviamente non intendo che io ballo, e anche in quello spettacolo c’erano attori, ma intendo un uso del corpo in scena che permette di raccontare stati d’animo o situazioni che magari a parole diventerebbero didascalici. In “Vecchia sarai tu” per raccontare Monica, la nipote di venticinque anni, e lo schifo di lavoro che fa, ovvero la gelataia precaria, mentre parlo utilizzo tutta la gestualità di chi fa i gelati: uno lo vede e lo capisce subito, soprattutto se c’è passato. Anche in “Svergognata” per esempio per raccontare Chicca, all’inizio vediamo questa donna che si muove nello spazio e fa dei gesti che possono far pensare a una cucina, alla preparazione, si muove e va dal marito, sveglia la figlia, poi mette la tovaglia, poi i piatti: si perde in tutte queste cose, per raccontare quanto nella giornata ci perdiamo in tremila cose, che non hanno nessuna importanza. A sentirci “noi abbiamo un sacco di cose da fare”, “non ho tempo non ho tempo”. Quando invece il tempo eccome se c’è!
In “Un sacchetto d’amore” l’ho usata ancora di più per passare da un personaggio all’altro: c’è Carmela col cane in borsa, che chatta sul cellulare, c’è la suocera che cucina besciamella e lasagne da non poterne più, il marito, che dirige i lavori e lei, insomma la coreografia c’è.
E invece la dimensione comica sarà prevista?
Per forza! Oggi ho provato le prime quattro pagine con i bambini che entrano nella classe della maestra di terza elementare. Ci sarà questo Lollo, che noi non vedremo mai ma ne parleranno tutti gli adulti. Lollo e Fatima: Lollo che venererà Fatima. Una cosa banalissima quindi, ma come la prenderanno questi adulti? Insomma oggi provavo e ridevo!
Io porto in scena la frustrazione che le maestre mi raccontano nei confronti dei bambini, come li considerano, anche se non sono tutte così, ovviamente, però è chiaro che devi avere una maschera in teatro, per cui porto questa maestra, che è una stronza, a dispetto di un nome molto dolce. La dimensione comica, ironica la chiamerei, mi permette sempre di parlare di certi argomenti con una certa leggerezza: permette a tutti di guardare e sollevare il giudizio.
In tutti i tuoi spettacoli precedenti la dimensione femminile è fondamentale?
Di partenza.
Quanto influisce? È una scelta ideologica, voluta, o ti viene da una necessità?
Allora per esempio, per quanto riguarda lo spettacolo sulla fecondazione assistita, “Stasera ovulo” (che non ho scritto io ma Carlotta Clerici), avendo avuto un’esperienza di vita analoga, quando Carlotta me lo fece leggere per avere un feedback, decisi che avrei voluto portare lo spettacolo in Italia. Lì la protagonista è una donna perché è lei che racconta, ma vera protagonista è la coppia. Negli altri miei spettacoli in realtà ci sono anche personaggi maschili e il fatto che le protagoniste siano donne è una questione tecnica, perché io sono una donna e quindi mi è più facile come corpo partire da lì. Però in realtà come temi e questioni i miei spettacoli parlano a tutti, anche agli uomini, che soffrono ugualmente il discorso del passare del tempo, che vanno dall’estetista, che se sono vecchi non lo devono far sapere, ricercano l’approvazione della compagna, dei colleghi, del mondo!
In tre parole che cos’è per te la residenza?
Scoperta, perché è la prima volta che io vengo in residenza artistica. Sono sempre molto solitaria, faccio da me, quindi è una scoperta estremamente positiva.
Lusso, perché ho il lusso di avere uno spazio, mi danno una casa dove stare, si occupano di me. Io posso a qualsiasi ora del giorno e della notte pensare solo a questo e vado a letto studiando, leggendo. Mi sveglio e se voglio scrivere delle cose, vengo qui, posso stampare, mi metto nella sala prove, posso andare e tornare. E inoltre sto in un posto molto bello: c’è il mare, che per me è molto importante.
Creatività, che non riguarda solo me: una creatività che respiri. Qui ci sono anche altri artisti che puoi incontrare, magari parlarci alla macchinetta del caffè… Domani sera ci sarà una restituzione e allora andrò a vedere cosa hanno fatto loro, come lavorano. È quindi un grande scambio.
Quanto è determinante l’essere in residenza nella costruzione del lavoro: noti una differenza pratica nel modo in cui stai procedendo?
C’è meno fatica. Se io ho uno spazio solo mio, dove posso stare e fare solo questo, spengo il cellulare e poi buonanotte ai suonatori: la gente sa che io sono qui e che non ci sono per nessuno. Mentre negli altri casi non è così. Per esempio mi è capitato di provare a Roma a gennaio, dove avevo preso uno spazio perché avevo necessità di scrivere, di andare avanti, ma ero distratta da tante altre cose. Qui sicuramente aumenta l’intensità del lavoro e vai anche più veloce, le cose escono meglio, produco di più.
Gli artisti che vengono in residenza ci parlano spesso del fatto che unire lo spazio pubblico, lavorativo, e lo spazio privato sia un profitto, un valore aggiunto. Nel tuo caso come vivi questo rapporto stretto tra i due tempi?
Sei dentro la creazione, sei dentro al tuo mondo, al tuo spettacolo. Ci pensi continuamente e vivi quasi ventiquattr’ore su ventiquattro con quello che stai cercando di raccontare per tirarlo fuori: questo è il vero lusso.