Armando Iovino e Marta Gilmore della Compagnia Isola Teatro raccontano la loro residenza e il perché de “La Casa Bianca”
Intervista di Alessandro Leoncini
In occasione della loro residenza a Castiglioncello, Armando Iovino e Marta Gilmore della Compagnia Isola Teatro, hanno presentato il Venerdì 23 Febbraio nella sala del camino del Castello Pasquini, la prima fase di studio della loro prossima rappresentazione: La Casa Bianca.
Lo spettacolo si presenta come un incontro tra le mura domestiche della madre dello stesso Armando Iovino, dove il pubblico recita la parte degli amici invitati dall’attore e Iovino interpreta se stesso ed altri parenti, compresa la madre, i quali lo interrompono mentre tenta di raccontare una storia creduta ormai sepolta e che vorrebbe restare tale. Non un monologo di denuncia verso la Camorra, ma una storia vera dove quest’ultima ha il ruolo non di protagonista ma bensì di pretesto per parlare di una terra distrutta dall’inquinamento e dai rifiuti tossici.
La Casa Bianca è un racconto autobiografico scritto da Armando Iovino che narra la storia di una zia dell’attore che ha dato ospitalità ad un boss della Camorra approfondendo oltre al tema dei rifiuti anche le dinamiche delle relazioni familiari, l’abbandono della campagna per la fuga verso le città in cerca di fortuna e di prestigio senza tralasciare il mito americano ed il profondo legame con la terra d’oltreoceano.
Ho avuto l’occasione di farmi raccontare l’opera e l’esperienza della residenza artistica dai fondatori del collettivo Isola Teatro Armando Iovino e Marta Gilmore.
Com’è nata la compagnia e da cosa deriva il nome?
M.G.: Il nostro primo lavoro era tratto da un testo di Athol Fugard, drammaturgo sudafricano intitolato The Island, l’isola, è il lavoro da cui siamo nati e da questo abbiamo preso il nome della compagnia. Siamo un collettivo indipendente con base a Roma, lavoriamo in maniera orizzontale pur dividendoci i ruoli.
Un aspetto ricorrente nei vostri spettacoli è l’utilizzo di spazi delimitati, “perimetrati”, come nasce questo utilizzo della “perimetratura” all’interno dei vostri lavori?
M.G.: Il nostro primo lavoro,The Island, era ambientato in una cella di un carcere, è ispirato a Robin Island ovvero l’isola-carcere dove è stato tenuto prigioniero Nelson Mandela, nel Sudafrica dell’apartheid.. E’ la storia di alcuni detenuti che mettono in scena la storia dell’antico di Sofocle, abbiamo creato una pedana che rappresentava la cella, l’isola e poi è diventata il palcoscenico. Successivamente abbiamo iniziato a fare altri lavori dove ricorreva un utilizzo di linee che delimitavano un perimetro dove si svolgeva la scena. Ci siamo accorti poi retrospettivamente che questo gioco di spazi delimitati è un nostro aspetto ricorrente. Sul piano drammaturgico invece lavoriamo moltissimo su una drammaturgia scenica che viene riattualizzata di volta in volta davanti al pubblico. Il cambiamento però avviene a partire da una partitura molto precisa, è una sorta di percorso fatto di tantissimi dettagli che andiamo a ricostruire momento per momento, anche questa è una forma di perimetratura.
Stasera presenterete qua al castello un primo studio sulla vostra prossima rappresentazione: “La Casa Bianca”, da dove nasce questo spettacolo ed è presente anche qua l’utilizzo di un perimetro?
A.I.: C’è una zona precisa delimitata dalla disposizione del pubblico. Nell’idea c’è che questo racconto venga fatto in una casa che accoglie questo pubblico ad ascoltare la storia. La Casa Bianca è un racconto che ho scritto io, parla di una storia familiare quasi totalmente vera. E’ un’idea che viene da lontano, sono tanti anni che volevamo fare un lavoro sulla questione dei rifiuti, su questa tragedia immane che non appartiene più solo a Napoli ma che va espandendosi. Poi io ho scritto questo racconto che riguarda una cugina di mia madre che in un momento di difficoltà economica ha dato ospitalità ad un boss importante della camorra.
M.G.:Di cui adesso non possiamo dire il nome ma verrà detto nello spettacolo.
A.I.: Viene messa a nudo questa vicenda che ha fatto soffrire molto i miei parenti perché si sono sempre ritenuti una famiglia rispettabile. E’ una storia che voleva essere dimenticata, successa quasi 30 anni fa anche se lavorandoci sopra mi sembra che sia successa solo ieri. Mi fa quasi paura avere a che fare con questi personaggi. Erano delle persone che al mio paese conoscevamo tutti quanti bene, personaggi che incutevano timore da una parte e dall’altra un senso quasi di privilegio nell’avere delle personalità così importanti nel proprio paese, erano diventati esseri quasi mitologici. Abbiamo fatto delle ricerche ed ho trovato delle registrazioni dei processi del ’94 e sentire le loro voci per la prima volta mi ha fatto spaventare, me li ha fatti diventare reali. In questo periodo si viveva benissimo nelle nostre zone, non circolava droga, non c’era violenza però poi nel frattempo c’era il retroscena: in queste terre veniva riversato di tutto e di più. Mi sono chiesto come mai fosse successo questo: le terre erano il loro bene più prezioso, vivevano di questo, come fosse stato possibile distruggere la propria più grande ricchezza.
M.G.: Ci interessava di questa storia quella che Primo Levi chiama la zona grigia. Di fatto questa sua zia è una vittima di un sistema dove lei diventa la più fragile. Qua presentiamo solo una parte iniziale del racconto, poi lei andando avanti è rimasta a coltivare la terra, al contrario degli altri, ha tentato altre strade incontrando un fallimento dopo l’altro. Ovviamente è da una persona così che vanno gli scagnozzi del boss a dire “Ci serve che ospiti il capo”, perché è un elemento debole,è una vittima, una vittima che diventa complice del sistema che la sta schiacciando e probabilmente senza neanche rendersene conto o forse senza avere scelta. Ma è ovvio che abbiamo sempre una scelta. Poi alla fine lei ha fatto il carcere ma si è anche ammalata di quello di cui ci si ammala da quelle parti, è tanto bello essere protetti dal capo ma non è che i rifiuti tossici alla fine là sotto non ci vanno, magari non circola la droga, magari ci sentiamo protetti ma che protezione è? Una protezione avvelenata. Ci sembrava una storia con cui entrare in empatia senza giudicare.
Perché “La Casa Bianca” come titolo?
A.I.: Questa mia zia ha un fratello che vive negli Stati Uniti, lui se n’era andato a 20 anni a vivere negli U.S.A. e poi è diventato imprenditore di successo, è diventato talmente ricco e potente da appoggiare la candidatura di Bush padre nel 1990. Molti altri parenti sono andati negli States, c’è una colonia della mia famiglia che vive lì e quindi c’era questo legame molto forte con l’America. Lui quando è finito tutto, 10 anni dopo alla fine di questa storia ha ricostruito la casa di mia zia, come per chiudere il discorso e ricominciare da capo. E l’ha ricostruita con due colonne davanti e tutta bianca che effettivamente sembra una Casa Bianca.
Com’è mescolare lo spazio lavorativo con quello privato?
A.I.: Quando si poteva usare qui il terzo piano, dove c’erano le camere, la cucina, era molto più bello, perché anche con le altre compagnie potevi condividere, chiacchierare, conoscersi, confrontarsi con il lavoro, questa era una cosa molto bella.
M.G.: E’ molto piacevole perché sei in un momento di concentrazione. Siamo molto più rilassati che nella nostra vita normale. Magari se la stessa dinamica si producesse nel nostro quotidiano.
Quali sono 3 parole che rappresentano quello che la residenza è per voi?
M.G.: Innanzitutto è un lusso perché possiamo dedicarci in maniera più concentrata al nostro progetto artistico e creativo senza il tran tran quotdiano. Abbiamo lasciato entrambi i figli a casa (ridono) E’ un’opportunità, un lusso, una fortuna per il processo creativo.
A.I.: Per me è anche una vacanza. Scherzo! (ride) E’ la possibilità di poter molto concentrati.
M.G.: Quindi direi anche concentrazione come parola chiave. E’un concentrato di lavoro, dove si condensano le possibilità di crescita, di sviluppo di un lavoro in un tempo condensato, avvengono le cose in pochi giorni.
A.I.: E sembra di aver passato un mese qua!