Intervista al duo Berardi Casolari in residenza al Castello Pasquini
Intervista di Daniele Laorenza
Ancora un’altra Compagnia in residenza nel Castello di Castiglioncello: questa volta è stato il turno della Compagnia Berardi Casolari, composta dal duo Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari. Nella loro settimana come ospiti di Armunia, la coppia ha lavorato sulla futura rappresentazione che metteranno in scena e hanno donato al pubblico un loro spettacolo di repertorio, “Briganti”, di cui ho scritto proprio in questo articolo. In tutto questo daffare hanno anche trovato il tempo per rispondere a qualche domanda sul loro passato, presente e futuro, con tanta simpatia e un certo alone di mistero per quello che ha iniziato a prendere forma durante la residenza.
Ho letto che vi siete incontrati nel 2001 e avete collaborato per diversi anni per poi formare la Compagnia nel 2008. Come mai questa scelta dopo i diversi anni di lavoro assieme?
GC – Inizialmente non pensavamo di formare la Compagnia perché entrambi continuavamo a lavorare anche in progetti non comuni. Poi abbiamo capito che non avevamo più tempo per fare nient’altro che le nostre produzioni e a quel punto abbiamo pensato “Vabbè dai, facciamo anche la Compagnia!”.
GB – Un tempo funzionava così: prima di un sodalizio, bisognava annusarsi, frequentarsi … insomma, bisognava fidanzarsi prima di sposarsi! Questa invece è l’epoca della liquefazione dei rapporti, non ci sono più legami, però devi comunque capire bene se sei in sintonia con l’altra persona prima di creare una società. Noi comunque siamo sempre liberi: se capitano altre occasioni con altre persone le sfruttiamo sempre perché sono fonte di arricchimento.
GC – Anzi, cerchiamo sempre collaborazioni!
Per quanto riguarda il lato artistico, qual è il vostro approccio al teatro e perché definite i vostri lavori “tragicommedie”?
GC – Nei nostri lavori c’è sempre una parte più poetica e più riflessiva che coesiste con una più comica: è una particolarità che lega entrambi. Pensiamo che parlare di cose di un certo spessore, di una certa importanza in maniera più leggera e un po’ divertente, aiuti a farle arrivare meglio al pubblico. E poi perché ci viene così!
GB – Io sono figlio di un operaio e di una casalinga e loro, se ci esprimessimo in maniera più “intellettuale”, non verrebbero più a teatro e ci chiederebbero “Perché ci dovete angosciare?”. Noi veniamo dal popolo, quindi per noi è importante che il prodotto finale sia intellegibile a più livelli. Il nostro teatro è contro-temporaneo: è contemporaneo perché accade nel presente ma, sottolineando con ironia e provocazione i paradossi e le contraddizioni del nostro tempo, si scontra con la contemporaneità di cui fa parte.
So che siete neo-vincitori del concorso “Last Seen”, decina edizione, indetto da Krapp’s Last Post grazie allo spettacolo “La prima, la migliore”. Volete parlarci di questo traguardo?
GB – Abbiamo vinto! Non ci credeva nessuno, noi nemmeno! Siamo stati secondi fino all’ultimo e nelle ultime ventiquattro ore c’è stato il sorpasso. Siamo contenti perché “La prima, la migliore” è uno spettacolo con il quale quest’anno non gireremo e si meritava un riconoscimento e alla fine l’ha avuto. Dal popolo lo ha avuto! Abbiamo fatto un po’ di pubblicità su Facebook per questo concorso mandando un po’ di messaggi, però lo abbiamo fatto solo con un’etica. Tanto sono tutti a mandare messaggi fingendo anche di fregarsene di vincere. Noi invece lo affermiamo, li abbiamo mandati a tutti quelli che conoscevamo, più di una volta anche, però a tutte persone che lo spettacolo lo hanno visto! Anche a quelli che avevano detto che non gli era piaciuto! Dicendo loro: “So che non ti era piaciuto, ma votami! Cosa ti frega? Non vai più a votare, te la do io la possibilità di esprimere la tua opinione! Inutile, ma esprimila!”. Tutto questo è stato ripagato. Si partecipa per vincere e abbiamo vinto!
Cosa significa per voi essere in residenza?
GC – La residenza è una bella possibilità per poter indagare e andare avanti nel nostro percorso di ricerca. Stiamo preparando un nuovo spettacolo,quindi ci dà la possibilità di lavorare in uno spazio teatrale che ti permette di farlo grazie a tutte le attrezzature tecniche, all’accoglienza e alla cura data.
GB – Significa anche avere una casa, per poco tempo, a tempo determinato, ma pur sempre una casa.
Ci sono differenze tra la residenza ad Armunia e le altre che avete vissuto?
GB – Ad Armunia si sta da Dio! In alcune residenze si sta meglio e in altre si sta peggio, ognuno ha i suoi punti di forza e altri di debolezza. Qui, i punti di debolezza quali sono? Il sole, il mare, la pineta, il Castello, la bellezza di questo paese, la temperatura, il clima. Il perché? Perché tutto questo ti distrae e ti chiedi “Cosa lavoro a fare io, con questo sole?!”
GC – Quando vai a lavorare in posti freddi e dove si mangia male, lavori sicuramente più volentieri!
GB – In quei casi non hai alternative! Invece qui stai così bene fuori che preferiresti non lavorare. Devo dire però che per il lavoro, questo posto, è “ganzo” come si dice dalle mie parti a Taranto! No, è una bugia, a Taranto non si dice così!
GC – Ci siamo trovati molto bene!
Come mai avete scelto di portare in scena “Briganti” durante questa vostra residenza, dopo ben diciotto anni dall’inizio del progetto di cui è frutto?
GB – Lo abbiamo portato qui perché, di solito, durante un periodo di residenza le Compagnie mostrano una parte del lavoro che ha costruito in quei giorni e a noi non piace fare così. Crediamo, infatti, che non sia giusto mostrare niente finche la realizzazione non è pronta perché l’osservatore potrebbe influenzare il processo creativo e, quindi, il prodotto finale. Noi abbiamo deciso di regalare uno spettacolo, inedito per Castiglioncello, come ringraziamento per la fiducia cieca che Armunia ci ha riservato.
GC – Poi è un anno in cui “Briganti”, dopo tanti altri in cui non lo abbiamo replicato, è stato richiesto più volte, quindi abbiamo deciso di farlo anche qui. Ci è sembrata una buona occasione.
Mi riallaccio a questa vostra ultima risposta: un’altra Compagnia ha dichiarato che le prove aperte sono un ottimo spunto grazie proprio al raffronto con il pubblico. Voi invece avete detto il contrario. Volete approfondire questa cosa?
GC – Per quel che mi riguarda sono giorni molto preziosi questi, in cui abbiamo uno spazio teatrale dove poter provare. Se devi mostrare qualcosa al pubblico in qualche modo ti ci devi dedicare in maniera mirata: devi fare un qualcosa che più o meno si capisca e quindi una parte del tempo che hai a disposizione lo usi per formalizzare quei dieci, quindici, venti minuti di prova aperta. Quando siamo arrivati una settimana fa non sapevamo dove saremmo arrivati e siamo andati completamente liberi, se avessimo dovuto mostrare qualcosa non avremmo avuto tutta questa libertà per la nostra ricerca.
GB – Anche noi ovviamente teniamo molto in considerazione il parere del pubblico, forse troppo, e sussiste il rischio che la risposta che ritorna dia una direzione che non è quella che volevi dare tu. Arriverà il tempo delle prove aperte, ma fino a che la statua non è ancora formata e la creta è ancora fresca c’è il pericolo di prendere un’impronta che non è la propria.
Ultima domanda, volete parlare del percorso che avete intrapreso durante questa residenza?
GB – Titolo, lo possiamo dire?
GC – “Amleto take away”
GB – Di che parla? Di tre cose: della politica, della famiglia, del teatro. Giusto?
GC – Sì, dai! Parla della nostra condizione, forse di più rispetto ad altri spettacoli. La nostra condizione di attori, di artisti, di persone che vivono in questo tempo.
GB – Parla della crisi, in realtà. E’ un proseguo del nostro percorso sulla crisi; una crisi che ci ha attraversati, che attraversa il teatro, che attraversa la politica, che attraversa i rapporti tra le persone della famiglia intesa come tutti i tipi di legame degli affetti, una crisi che è un malessere diffuso nell’aria. Ed è qui che esce la figura di Amleto che parla del teatro, della politica e del marcio che c’è in Danimarca, in Europa, in Italia, in Puglia, nella mia famiglia, del marcio che c’è dappertutto. E poi parla dell’amore nelle sue diverse forme: l’amore verso la madre, verso l’amata Ofelia, l’amore respinto e l’amore perverso. E poi parla di come questo mondo virtuale ci stia portando a vivere attraverso i sensi forti (vista e udito) allontanandoci dai sensi deboli (gusto, olfatto e tatto) che ci permettono un completo contatto con la realtà.
BRIGANTI
Non una prova aperta, ma uno spettacolo di repertorio, quello che la Compagnia Berardi-Casolari nel loro periodo di residenza ha offerto al pubblico venerdì 26 gennaio nella Sala del Camino. La rappresentazione teatrale “Briganti”, frutto dell’omonimo progetto nato nel 2000 e vincitrice del concorso internazionale “L’altro Festival” nel 2005, parla di una pagina della storia italiana spesso sconosciuta o dimenticata: il fenomeno del brigantaggio nel sud Italia subito dopo l’Unità nazionale.
Durante l’esibizione lo spettatore vive le memorie del giovane protagonista detenuto in cella perché brigante, tra vicende che prendono spunto da fatti realmente accaduti, grazie alla ricerca storico-sociale intrapresa dalla Compagnia: avvenimenti visti con gli occhi del vinto, che lasciano un sapore di ingiustizia. In scena non sembra di vedere la storia post-unitaria ma un racconto diverso, perché lontano dalla storia ufficiale, quella scritta dai vincitori, dove solitamente non trovano posto gli episodi di soprusi e le motivazioni della controparte avversaria vengono sempre descritte come criminose.
Sono bastate una sedia, un pentolino e alcuni punti luce a far catapultare la platea del Castello Pasquini nella cella delle carceri del ex-Regno delle Due Sicilie insieme al giovane brigante, grazie anche all’inserimento di canti della tradizione orale popolare del Meridione, che hanno arricchito l’esibizione di realismo.