Intervista a Marco Di Costanzo della Compagnia Teatro dell’Elce
Articolo di Alessandro Leoncini
Domenica 21 Gennaio è andata in scena tra le mura del Castello Pasquini la prima restituzione della stagione 2018 di Armunia: SULLA MORALE NELL’ERA TECNOLOGICA. La prova aperta ha rappresentato la fine della residenza del collettivo teatrale fiorentino Teatro dell’Elce. L’esibizione ha riguardato la primissima fase di studio del loro futuro spettacolo basato sul carteggio tra Claude Eatherly, maggiore dell’Air Force americana che partecipò alla missione culminata con lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima e Günther Anders, filosofo e scrittore tedesco.
La messa in scena è strutturata come uno scambio di monologhi tra il filosofo, accompagnato dalla presenza del proprio postino, e l’ormai ex aviatore americano. Sono state prese in esame le prime sei lettere (cinque più la seconda andata perduta) del carteggio tra i due uomini. Gli attori sono riusciti grazie alle loro interpretazioni ad alternare momenti di ilarità a spunti di riflessione più profondi sull’importante tematica trattata.
Ho avuto il piacere di parlare dello spettacolo e della compagnia con il regista, Marco Di Costanzo.
Partiamo dalla vostra Compagnia: la cosa che mi ha incuriosito è la vostra particolare organizzazione, che conta anche su un sound designer. Come è nata la compagnia e come vi spartite i ruoli in fase di produzione?
Il sound designer è presente perché il nostro primo spettacolo, Ercole e le stalle di Augia, è tratto da un testo di Dürrenmatt che è un radiodramma e nella realizzazione ho dedicato una particolare attenzione alle atmosfere sonore: lo spettacolo coinvolge un solo attore, Stefano Parigi e un sound designer, Andrea Pistolesi, che ho conosciuto proprio in quella occasione. È a seguito di Ercole che Andrea, Stefano ed io abbiamo deciso di fondare l’associazione Teatro dell’Elce e di proseguire la collaborazione.
I vostri spettacoli sono tratti spesso anche da scritti non teatrali (carteggi, libri di illustrazione, ecc…), com’è nata questa esigenza, quest’idea di portare appunto qualcosa di non specificatamente inerente al teatro? Come lavorate per adattare un testo non teatrale ai vostri spettacoli?
L’uso di testi non teatrali per la scena è una cosa ormai abbastanza diffusa nel teatro contemporaneo. Nel nostro caso forse questo dipende soprattutto da una mia passione: in effetti la traduzione di materiali non teatrali in azione scenica è forse la cosa che più mi interessa. Ogni volta il processo di “traduzione” cambia a seconda del materiale di partenza: può essere un tema particolare, per esempio l’entusiasmo nel caso di Cinquanta!, oppure un libro, come nel caso de Il Nemico, che è un album illustrato. In questo senso ogni spettacolo ha avuto un processo di lavoro diverso, anche se sempre incentrato sulla presenza degli attori.
Un esempio potrebbe essere lo spettacolo che è in prova in questi giorni, cosa vi ha spinto a mettere in scena un carteggio tanto particolare?
Il materiale di partenza sono delle lettere, quindi un materiale non scritto per il teatro, anche se una lettera è comunque un testo scritto da una persona e destinato ad una persona, quindi in fin dei conti una serie di lettere si possono leggere come una serie di battute di un testo teatrale. L’unica cosa è che le persone non sono compresenti, per cui non è chiaro, scenicamente, se si tratti di un dialogo, di una serie di monologhi o altro. Questo è al momento per noi oggetto di studio, ciò su cui stiamo lavorando in questi giorni: come fare a ottenere un’azione scenica a partire da delle lettere. Questo perché l’obiettivo è quello di utilizzare per lo spettacolo il testo delle lettere così com’è e non di scrivere una drammaturgia a partire dalle lettere stesse.
Con questo e con altri spettacoli che avete realizzato avete cercato di portare un messaggio sociale. E’ il risultato di un’esigenza che sentite come compagnia o è più il risultato naturale e istintivo di un certo tipo di ricerca artistica?
Diciamo che non è una cosa che mi pongo come vincolo, come obiettivo, ma magari succede. La nostra vocazione è sicuramente quella di cercare di rimanere ancorati alla realtà che viviamo quotidianamente. In verità spesso partiamo da dei materiali che hanno un aspetto sociale ma poi quello su cui lavoriamo sotto traccia non necessariamente lo è… Ti faccio un esempio: Il Nemico, che è una storia di guerra, in realtà parla di come avvengono i cambiamenti nelle persone.
Per quanto riguarda la produzione e la messa in scena dei vostri spettacoli avete un determinato tipo di pubblico?
Me l’ha appena chiesto il grafico che deve rifarci il logo: “Ma voi a chi vi rivolgete?”, “Ma … non lo so … “ (ride). Guarda, ti devo dire che questa è una domanda difficile! Mi verrebbe da dire a tutti, dirti che non abbiamo un pubblico di riferimento. Diciamo che sicuramente ci piacerebbe che chiunque si presenti avesse le basi minime per comprendere i nostri spettacoli. Per esempio in questo progetto (Little Boy) è importante parlare la lingua italiana per seguire perché è un progetto molto verboso. Però si, l’ambizione sarebbe che chiunque si presenti possa fruire lo spettacolo, poi chiaramente non possiamo prevederlo. E’ capitato che ci abbiano detto che i nostri spettacoli non erano facili, ma certamente non è quello che ci proponiamo come compagnia.
Siete già stati in residenza artistica al Castello Pasquini, cos’è per te quest’esperienza?
E’ un’ottima occasione per focalizzarsi sul lavoro e di difendersi un po’ dalla centrifuga in cui viviamo normalmente. Soprattutto in un contesto di produzione come il nostro che costringe ad occuparsi di più cose contemporaneamente succede che tutto quello che hai da fare, incredibilmente, come un imbuto, va a finire sul regista e soffro molto di questa cosa in effetti. Non abbiamo degli uffici o chissà quante persone che si occupano della produzione per cui questo dover tenere molti fili allo stesso tempo credo che vada a detrimento del lavoro: per cui potersi a volte chiudere in un eremo, in un castello come in questo caso (ride), è veramente un’ottima occasione.
Qui in residenza mescolate la vostra vita lavorativa con quella privata. Com’è questo mix tra le due cose?
Devo dire ci troviamo molto bene tra di noi. Bisogna però stare attenti, per esempio la sera ad un certo punto diciamo che stacchiamo, quindi uno parliamo d’altro, però cerchiamo per esempio di non parlare del processo di lavoro mentre siamo a cena. Secondo me è importante dividere bene i momenti; perché la persona che si presenta a lavorare è diversa da quella che si presenta a cena. Non è un’altra persona però diciamo che in scena bisogna portare l’IO alto e l’IO basso mentre l’IO medio va lasciato a casa, poi quando torniamo a casa lo recuperiamo.
Avete notato differenze tra questa residenza e le altre? Non necessariamente meglio o peggio, ma proprio differenza anche dal punto di vista del luogo?
Per il progetto a cui stiamo lavorando questo luogo è ideale, ci siamo trovati benissimo, non potevamo chiedere di meglio!
Poi, appunto, forse anche il periodo dell’anno, c’è molta tranquillità, Castiglioncello di inverno è particolare: non c’è nessuno, non c’è la folla che può esserci d’estate, dalle finestre (del castello) si vede il mare.
Domenica avrà luogo la vostra restituzione qua al Castello, ci sono delle differenze riguardo alla partecipazione del pubblico ed alla vostra preparazione in una prova aperta rispetto ad uno spettacolo?
Si, certo. Noi dovremmo far finta di non avere una restituzione pubblica, questa sarebbe la cosa più produttiva per il lavoro. Nel senso che nel momento in cui c’è una restituzione pubblica dove si paga un biglietto la festa va preparata almeno un po’ (ride). Questo preparare la festa non è buono per lavorare in prospettiva, ma cercheremo di sfruttare la serata come occasione per gli attori di fare una prova in cui sia aperto anche il vettore di relazione verso pubblico. Chiaramente la fruizione di una prova aperta è diversa da quella di uno spettacolo, soprattutto se vediamo lo spettacolo come un percorso in cui si parte da un’esperienza (l’inizio) per arrivare ad un’altra (la fine): questo non può accadere in una restituzione pubblica che riguarderà una piccolissima parte del testo su cui lavoriamo. Il lavoro è appena iniziato.